A Herdade: la recensione del film portoghese di Tiago Guedes in concorso al Festival di Venezia 2019
Una storia dal respiro ambiziosamente epico, una soap d'autore sul patriarcato.
João Fernandes ha lo sguardo volitivo, la mascella squadrata, il capello corvino e lucido. È un leader, uno sciupafemmine, ha un carattere forte che sta lì anche per nascondere un trauma dal passato, e una sensibilità sottovalutata. Ha la sigaretta sempre in bocca, e un bicchiere quasi sempre in mano. João Fernandes è una sorta di Don Draper portoghese, non pubblicitario ma latifondista, non in giacca e cravatta impeccabili ma in camica e stivaloni, pronto a montare a cavallo a usare la sua forza ruvida e mascolina nell’immensa tenuta di cui è proprietario.
È a quella tenuta, teatro pressoché unico delle vicende che si riferisce il titolo del film di Tiago Guedes, A Herdade (che però, non a caso, vuol dire anche “l’eredità”). Una tenuta governata dal protagonista quasi come una città stato, una sorta di regno indipendente: tanto che quando, alla vigilia della Rivoluzione dei Garofani, i ministri di Marcelo Caetano, bisognoso di sostegno, si rivolgono proprio a Fernandes, minacciandolo di porre fine a questo regime di autogoverno di fatto in assenza di un appoggio al governo.
Dopo un prologo negli anni Quaranta, infatti, buona parte di A Herdade si svolge tra il 1973 e il 1974, per poi compiere un salto temporale in avanti fino al 1991. Ma la storia con la s maiuscola rimane solo sullo sfondo, e serve solo a definire in maniera ancora più precisa il personaggio di Fernandes, le dinamiche familiari e quelle coi suoi aiutanti, e i suoi braccianti. Servono a mostrare che João non è un perfido capitalista, né un rivoluzionario, ma una figura anarchica e individualista, incline al progressismo. Servono a far vedere che lui non è tanto un padrone, quanto un patriarca. E, quindi, che il patriarcato non si abbatte né con le armi della politica, né in fondo con quelle dell’economia (nel 1991 nella tenuta non se la passano più bene come in passato), ma cade da solo vittima della sua miopia e delle sue degenerazioni.
In maniera lenta ma inevitabile, quello di Guedes si rivela un film che parla di padri e di figli, di mariti e di mogli. Di famiglie. Le famiglie che vivono in questa sorta di realtà isolata dal resto del mondo, autonoma e indipendente e ricca di solidarietà, ma destinata inevitabilmente a un’endogamia incestuosa che le fiaccherà e le metterà di fronte alle loro contraddizioni. Che sono quelle di un uomo incapace di amare davvero suo moglie e suo figlio, e che pagherà il prezzo dei suoi errori.
A dispetto degli spazi straordinari a disposizione, che pure Guedes ritrae non appena ne ha l’occasione, A Herdade gravita tutto intorno alla grande masseria e all’ampio cortile dove risiedono Fernandes, la sua famiglia, i suoi collaboratori più stretti. Non è claustrofobico, ma costantemente centripeto, per volute ragioni narrative.
Anche per questo, oltre che per le dinamiche che racconta, A Herdade assomiglia a una magniloquente soap opera d’autore, che ha come finalità ultima raccontare un personaggio patriarcale che però, in fondo, non coglie mai quella dimensione epica e titanica cui il regista aspirava.
Guedes cita Leone, Kazan, Minnelli e Anthony Mann tra le sue ispirazioni: i risultati dei suoi sforzi non sono all’altezza di cotanti modelli, ma riescono a coglierne a tratti una parte del respiro, e trovano un ritmo che non è mai brachicardico a dispetto di alcune lungaggini eccessive, cadenzato dagli eventi ben distribuiti e da una serie di immagini chiave che arrivano grazie al senso dell’inquadratura dell’autore.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival