A Ciambra: la recensione del viaggio nella comunità rom calabrese di Jonas Carpignano
Opera seconda presentata al Festival di Cannes 2017
Una cosa è sicura: il regista Jonas Carpignano, italiano di nascita e formazione americana, ha trovato il suo universo e non ha intenzione di abbandonarlo. Pochi chilometri intorno a Gioia Tauro, arrivando fino alla tendopoli in cui sono ammassati centinaia di immigrati a Rosarno, per lo più braccianti stagionali africani. Padre italiano e madre afro americana, dopo gli studi negli Stati Uniti si è stabilito in Italia, in quella terra che doveva accoglierlo per girare un cortometraggio, A Chjàna, sulla rivolta dei lavoranti africani di Rosarno. Ha finito per rimanere a viverci, in quella terra, inserendosi nel tessuto sociale fino a diventarne un cittadino onorario, raccontando in particolare la storia di Ayiva, Koudous Seihon, poi protagonista del lungometraggio Mediterranea, e ora non protagonista di A Ciambra, al fianco del giovane rom Pio Amato, della sua famiglia e della comunità tutta di Gioia Tauro.
Sono volti e personaggi che ritornano nei lavori di Carpignano, filmaker embedded con la stessa ostinazione del documentarista Roberto Minervini, pur continuando a credere nella finzione, seppur dopo un lavoro di scrittura sempre in ascolto di modi di dire e dinamiche reali. Un lavoro di anni, un percorso di conoscenza basata sul rispetto fra chi intuisce la potenzialità di volti e storie e che ha la fiducia di affidarsi. Solo così si spiega la purezza rara del lavoro di Carpignano, che ritrae Pio e famiglia per quello che sono, che fanno ogni giorno, sotto la pressione della doppia legalità: quella della polizia e quella della comunità rom. Nessuna difesa d’ufficio o retorica dello svuotamento di luoghi comuni radicati, bensì il tentativo, quasi incosciente eppure riuscito, di farci affezionare ai personaggi del film. Il maggiore merito di un film che soffre di qualche ripetitività evitabile, mette in scena il rapporto d’amicizia fra due marginalità, ma anche l’inevitabile pressione del clan.
Il tutto senza scene madri: con la grazia di un gesto d’affetto nella brutalità quotidiana, le braccia che si stringono al petto in due sullo scooter o una mano fra i capelli. Neorealismo nobile, costruito intorno alle persone fino a renderle attori credibili, rimanendo narrativamente in binari consolidati e un po’ consunti. Pio è a un bivio, non è più un bambino che può impunemente continuare a coltivare i rapporti con tutte le comunità, dall’italiana all’africana, per lui si avvicina il momento del rito di passaggio che marchi il suo futuro, lo renda uomo.
Carpignano rimane con la camera aggrappato ai volti dei suoi attori, per cui prova enorme empatia, senza allargare mai troppo lo sguardo, cercando il loro punto d’osservazione sul mondo, le loro sincere motivazioni, i loro errori, le loro imperfezioni che rendono un tale microcosmo ai margini ben più rappresentativo di quanto appaia a prima vista.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito