A Chiara: la recensione del film di Jonas Carpignano

08 ottobre 2021
3.5 di 5
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Un'adolescente calabrese perde la spensieratezza della sua vita da ragazza affamata di vita quando scopre che la sua famiglia, il padre in particolare, nasconde un segreto, una doppia vita criminale. La recensione di Mauro Donzelli del film di Jonas Carpignano.

A Chiara: la recensione del film di Jonas Carpignano

Due compleanni incorniciano una storia di formazione, il racconto di un prematura scavalcamento della linea d’ombra da parte di un’adolescente che conclude la trilogia su Gioia Tauro e dintorni di Jonas Carpignano. A Chiara racconta l’impatto sulla vita quotidiana della malavita organizzata (non più solo) locale, la ‘Ndrangheta, due momenti in cui fare i conti con la proiezione pubblica della propria individualità, dopo aver messo al centro della sua narrazione i migranti (in Mediterranea) e i Rom (in A Ciambra). Un universo unico, in cui il regista italiano, nato e formatosi a New York, ha vissuto per dieci anni, entrando fino al profondo nella linfa vitale e nelle resistenze al cambiamento di quella realtà. Nel film regala anche una breve apparizione, una sorta di saluto d’addio a quella terra e a quelle storie, oltre che a sé stesso anche ai protagonisti dei primi due film, Koudous Seihun e Pio Amato.

Un compleanno, dunque, apre il film. Momento in cui la sorella maggiore di Chiara “diventa grande”, festeggia 18 anni, in cui conosciamo la famiglia Guerrasio, numerosa fino a riempire un locale, in cui la giovane protagonista non è ancora a fuoco al centro della vicenda, ma inizia insieme allo spettatore a rendersi conto di come ci siano, quasi fuori dalla scena, dinamiche e personaggi che sussurrano e nascondono.  

Le giornate di Chiara sono scandite dalla palestra, la scuola, i pomeriggi sul lungomare con le amiche, mentre la sorella sta prendendo la patente, altro rito di passaggio verso un’indiependenza a cui Chiara guarda con curiosità. Così come fa nei confronti di un mondo che le gira intorno di cui non conosce tutti i codici. La sua personalità la porta a mettere becco, a parlare, a cercare risposte alle domande che cominciano a suscitargli comportamenti e situazioni che coinvolgono il padre e alcuni suoi parenti. I maschi sono una tribù a parte, mentre le femmine si occupano di altro. 

È la dimensione notturna quella in cui Chiara si spingerà fino ai segreti più intimi della sua famiglia. Nel suo passare dalla veglia al sonno, fra incubo e sogno, acquisisce la consapevolezza che un’altra vita scorre nei meandri più oscuri della sua famiglia. Carpignano ci conduce letteralmente nei corridoi e nelle stanze nascoste in cui si rifugiano i Guerrasio. Nei labirinti in cui Chiara dovrà avventurarsi, per potersi poi svegliare al mattino consapevole di come la sua vita sia cambiata. Proprio il mattino, nel confrontarsi con il mondo esterno e la sua quotidianità, che la ragazza prenderà coscienza dei limiti fra intimo e segreto, fra il privato e la sua manifestazione pubblica. Un film in continuo movimento, in cui si studiano gli spazi fino a superarli, in un gioco fra dentro e fuori in cui Carpignano conduce abilmente lo spettatore a identificarsi con un viaggio di scoperta che mette in luce in maniera spietata i confini di un universo che Chiara deve superare, e denunciare, per potersi muovere liberamente ed esprimersi, senza doversi fare piccola forzatamente.

Un’intimità in cui la famiglia marca la distanza rispetto al fuori, a un’autorità percepita come “altra”, un nemico capace solo di puntare il dito senza conoscere le dinamiche più profonde. “Pensano che siamo tutti uguali, ma non è così”, dice il padre in una scena chiave di dialogo con la figlia, che diventa rito di passaggio, in cui viene fumato il calumet e Chiara ha accesso alla seconda vita del capofamiglia. “La chiamano mafia, noi la chiamiamo sopravvivenza. Noi questo siamo”



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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