7 sconosciuti al El Royale: la recensione del film di Drew Goddard con Chris Hemsworth e Dakota Johnson
È un caleidoscopio neo-noir, il film che ha aperto la Festa del Cinema di Roma 2018.
La prima che vediamo arrivare è una donna. Davanti alla porta dell’hotel El Royale, nei pressi di Lake Tahoe, situato esattamente sul confine che separa la California dal Nevada (con tanto di striscia visibile al suolo e ambienti diversificati a tema), c’è un prete. Dentro, un venditore di aspirapolvere. E finalmente, arriva anche un ragazzo che è l’unico dipendente factotum di quella struttura. Ultima, ma forse no, una giovane che viene additata come “hippie”.
Non sappiamo niente di loro, ma sappiamo - perché siamo spettatori smaliziati - che tutti nascondono qualche segreto; e sappiamo - perché Drew Goddard ce l’ha detto - che a El Royale, dieci anni prima, è successo un fatto brutto.
All’inizio 7 Sconosciuti al El Royale sembra quasi proporsi come il corrispettivo (neo)noir di quando fatto da Goddard con Quella casa nel bosco e l’horror: un gioco un po’ pop e un po’ metacinematografico, una costruzione a scatole cinesi dove solo progredendo con la storia e la consapevolezza, puoi arrivare a ipotizzare la topografia generale del racconto, in attesa di essere ancora sorpreso.
Anche il gioco sullo sguardo e il guardare, con quegli specchi a doppia via che vengono rivelati fin dal trailer, ricorda un po’ il film precedente del regista americano. Poi, però, mentre nuovi personaggi - non molti, il titolo è eloquente - entrano in scena, qualcosa cambia.
Accade allora che il gioco, pur divertente e ben congegnato, perda la sua importanza. Che gli incastri narrativi e temporali cedano progressivamente (ma mai completamente) il terreno a modalità di racconto più lineari. E che ci si inizi a rendere conto che questa volta Goddard mica voleva solo lavorare sul genere e le sue regole, omaggiarlo attraverso tradimenti, svelamenti e rielaborazioni: si inizi a capire che se 7 Sconosciuti al El Royale è ambientato in quel posto che sta letteralmente sul confine, e se è ambientato proprio nel 1969, che è il punto cardine in cui avviene il passaggio dai pacifici e ridenti anni Sessanta ai tumultuosi Settanta, e se perfino la tanta (bella) musica che sta nel film gioca a ping pong tra lo swing e il soul del prima, e il rock del dopo, un motivo c’è.
Ed è ben preciso.
Attraverso il colorato e caldo caleidoscopio che mette in scena sullo schermo, fatto di schegge di vetro, verità, memorie, note, violenze, segreti, colpi di scena, riferimenti alla Storia (da Nixon in tv e Hoover al telefono, fino a un proto Charles Manson palestrato e un J.F.K. solo evocato e mai nominato), Goddard cerca di ricostruire l’immagine infranta del Sogno Americano, e dell’Innocenza di un paese. Un’innocenza che, in fondo, a vedere e ascoltare le storie dei sette sconosciuti, non è mai stata tale, perché il Vietnam, l’assassinio di Kennedy, e il massacro di Cielo Drive sono stati solo il precipitato di tutto quello che già esisteva da prima.
Per Goddard, però, il passato, e certi valori che rappresentava, era meglio di quel presente, e del futuro, e lo fa capire chiaramente, con le scelte che fa sui caratteri e sulle sorti dei suoi personaggi. Se si salva chi si salva, non sarà di certo un caso: magari chi nella vita ha più subito che altro, o chi la coscienza ce l’ha comunque sporca, ma sicuramente meno di altri.
E quella di una sorta di supremazia amorale di un passato comunque più pulito e sincero del presente corrotto e laido, alla fine, sembra anche una dichiarazione che 7 sconosciuti a El Royale fa anche sui tempi che viviamo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival