28 Anni Dopo, la recensione del film: Danny Boyle contro le aspettative del pubblico
Boyle e Garland portano il mondo che hanno inventato all'alba del Ventunesimo secolo lì dove i fan non se lo sarebbero mai aspettati. E questo un grande punto a favore per loro. La recensione di 28 anni dopo di Federico Gironi.
Mentre scrivo queste righe, non so ancora cosa scriveranno i critici, quelli seri, su 28 anni dopo, né come reagiranno gli spettatori. Sarei incline a credere, però, che questo nuovo di Danny Boyle, primo vero sequel di 28 giorni dopo (il 28 settimane dopo uscito qualche anno fa non viene - giustamente - nemmeno preso in considerazione), che lo vede tornare a quell’universo assieme allo sceneggiatore che l’aveva immaginato, Alex Garland, sarà vituperato dai più.
In alcuni casi, sicuramente di minoranza, vituperato con qualche ragione, giacché non è che 28 anni dopo sia un film del tutto del tutto riuscito, ed è vero che in mezzo ha qualche roba vagamente bruttina; in altri, però, si darà contro al film per due motivi peraltro connessi tra loro: l’ambizione di Boyle e la sua voglia di dare in pasto ai fan dell’originale qualcosa di completamente diverso rispetto a quel film e alle aspettative nei confronti di questo nuovo.
Ecco, solo per questo penso che 28 anni dopo sia un film da premiare: perché Boyle si rifiuta di sottostare alla dittatura del fandom, di dare la pappa pronta a un pubblico che sa più masticare qualcosa che non sia omogeneizzato e reso semplice e familiare, di continuare a fare sempre la stessa cosa per soddisfare chi vuole che tutto rimanga sempre uguale.
Che poi parte benissimo, 28 anni dopo. Parte con un prologo brutale che in qualche modo ricorda quello notevolissimo dell’Alba dei morti viventi di Zack Snyder, che tira i ballo i lisergicissimi e inquietanti Teletubbies (altro che innocenza dell'infanzia( e che è apparentemente slegato dal resto della storia (il collegamento arriverà alla fine, e farà da cliffhanger preparatorio con il secondo film della trilogia che Boyle e Garland vorrebbero realizzare). Prosegue bene, poi, 28 anni dopo, catapultandoci dalle highlands scozzesi sulla piccola isola lungo delle coste inglesi del nord-est dove si è rifugiata la comunità di sopravvissuti cui appartengono i protagonisti, raccontando del battesimo di sangue di un 12enne che il padre porta sulla terraferma, armati di arco e frecce, per uccidere il suo primo infetto e farlo diventare così un uomo.
Questa prima del film di Boyle è una parte interessante, non solo perché ben costruita e capace di una buona tensione, ma anche perché è in questa fase che Boyle fa le sue dichiarazioni più originali sulla Brexit (che, come il Covid, è entrata di prepotenza nella storia del film), lasciando che siano i “buoni” a essere metafora di quell’isolazionismo conservatore e un po’ cupo, legandosi con immagini d’archivio (quelle dell’Enrico V di Laurence Olivier) e perfino sonorità d’archivio (la storica registrazione dell’ossessiva poesia “Boots” di Rudyard Kipling realizzata nel 1915 da Taylor Holmes) a un immaginario nazionalista britannico volutamente obsoleto. Gli stessi papà e figlio in giro per i boschi lussureggianti, armati di arco e frecce, d’altronde, non possono non ricordare in qualche modo un altro mito squisitamente inglese come quello di Robin Hood.
Fino a qui, a parte le questioni legate alla Brexit, più o meno è tutto come ci si poteva aspettare fosse 28 anni dopo: ma quando, ovviamente per il rotto della cuffia, i nostri due protagonisti riescono a varcare sani e salvi il cancello che protegge la loro isola, ecco che qualcosa cambia.
Cambia perché dopo il tumulto e la confusione di una festa dal gusto vagamente medievaleggiante organizzata per questo ragazzino diventato uomo, complice il fatto di aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, il nostro Spike decide che il suo cammino di uomo non sarà quello che il padre ha pensato per lui; perché Spike deciderà di uscire dall’isola da solo, anzi con sua mamma malata, e quella loro avventura - che pure conterrà alcune situazioni e scene che sono quelle che ci si possono aspettare quando un ragazzino e una donna malata vagano per una terra popolata da infetti -condurrà il film e lo spettatore in luoghi davvero inattesi. Tanto da lasciare tra lo sbalordito e il basito.
Fin dall’inizio del suo film, ma soprattutto in questa seconda parte, Boyle mette sullo schermo un’attitudine quasi scellerata, o quasi sperimentale, alla gestione della storia e del suo impianto visivo, sfruttando l’immagine digitale e le sue potenzialità in maniera affascinante e controintuitiva, e soprattutto quasi opposta a quella di 28 giorni dopo, utilizzando il formato 2,76:1 (lo stesso di Oppenheimer, o di The Hateful Eight, o di Ben Hur), ammiccando ai malikianismi della natura, alternando un senso dell’inquadratura che pare voler imitare il David Lean di Lawrence d’Arabia con delle fugaci ma ricorrenti brutalizzazioni lo-fi della stessa.
Dal punto di vista del puro racconto, poi, svolta inattesa dopo svolta inattesa, personaggio improbabile dopo personaggio improbabile (il soldato, il dottore), dopo ogni testardo alzo dell’asticella da parte dello spericolato Boyle e del suo sodale Garland (il neonato!), si rimane vittime di uno stupore che arriva a trascendere l’idea di bello e brutto, giusto o sbagliato, ma che funziona in virtù di una incontrovertibile fiducia nell’idea di intrattenimento e di simbolismo, e nella capacità di applicarla, che ha questa diabolica coppia.
È quasi programmatica, questa operazione: lì dove 28 giorni dopo era secco, netto, nervosissimo e diritto al punto, 28 anni dopo è il suo contrario in tutto e per tutto. Basti pensare che i primi infetti che si vedono, dopo il prologo, sono quelli che Boyle ha chiamato “bassi-lenti”, creature obese che strisciano per terra a velocità risibili che sono tutto il contrario dell’immagine dell’infetto (o dello zombie) con la quale 28 giorni dopo ha ridefinito tutto un genere. Questa volta non c’è rivoluzione. O forse sì?
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival