Unwanted - Ostaggi del mare: L'importante serie Sky nelle parole degli autori al Riviera International Film Festival
Durante il Riviera Film Festival lo sceneggiatore Stefano Bises, il giornalista Fabrizio Gatti dal cui libro Bilal è tratta, e Nils Hartmann hanno parlato al pubblico di una serie molto attesa, Unwanted - Ostaggi del mare, prossimamente su Sky, mostrando anche alcune scene.

Senza paura di sembrare retorici, anzi, convinti di non correre il rischio di esserlo, da quello che abbiamo ascoltato e dalle clip che abbiamo visto in anteprima al Riviera International Film Festival, possiamo dire che Unwanted - Ostaggi del mare, la nuova serie Sky Original in 8 episodi tratta dal libro “Bilal” del giornalista d’inchiesta Fabrizio Gatti, è una visione di lacrime e sangue, qualcosa che ci mette tutti di fronte al dramma dei migranti e delle morti in mare in modo non ideologico ma costringendoci a fare i conti con le nostre idee e i nostri pregiudizi. Una scelta coraggiosa e impegnativa, costruita come un thriller e con un cast, diretto dal regista tedesco Oliver Hirschbiegel, che comprende Marco Bocci, Denise Capezza, Francesco Acquaroli, Marco Palvetti, Maurizio Lombardi, Jessica Schwarz, Dada Fungula Bozela, Hassan Najib, Jonathan Berlin, Jason Derek Prempeh, Cecilia Dazzi, Barbara Auer, Sylvester Groth, Nuala Peberdy, Samuel Kalambay Amadou Mbow, Edward Apeagyei, Reshny N'Kouka, Onyinye Odokoro, Massimo De Lorenzo e Scot Williams. L’azione si svolge su una nave da crociera, l’Orizzonte, il cui capitano (Bocci) decide di seguire la legge dell’umanità e del mare portando in salvo i migranti sopravvissuti all’incendio e al naufragio dell’imbarcazione che li trasportava. Lo sceneggiatore Stefano Bises, il vice presidente di Sky Studios Nils Hartmann e il giornalista Fabrizio Gatti hanno offerto al pubblico del RIFF alcune scene in anteprima di quello che vedremo, e coi loro racconti hanno suscitato l’emozione dei presenti ad un incontro partecipatissimo.
Bilal, l’origine di Unwanted nelle parole di Fabrizio Gatti
Nel 2007 Fabrizio Gatti, giornalista investigativo (per Il Giornale, il Corriere della sera e attualmente per Today.it), pubblica il libro “Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini”, in cui racconta i suoi viaggi sotto copertura, migrante tra i migranti, sulle rotte tra l’Africa e l’Europa, un’esperienza densa di pericoli, che gli consente di vivere sulla sua pelle e dunque comprendere i ricatti, le violenze, i respingimenti, la corruzione e l’esito incerto a cui queste persone vanno incontro nella speranza di una vita migliore. Il libro è stato ripubblicato nel 2022 col titolo “Bilal. Il mio viaggio da infiltrato verso l'Europa”, cui Gatti ha aggiunto un solo capitolo iniziale, perché la situazione da allora non è molto cambiata, anzi, è decisamente peggiorata. Questa la descrizione del libro:
Questo libro è il racconto di un viaggio straordinario e insieme un’inchiesta unica al mondo. Per quattro anni Fabrizio Gatti ha cambiato il suo nome in Bilal per trasformarsi in un migrante clandestino e descrivere, in prima persona, il dramma di chi si mette in marcia per conquistare una vita migliore al di qua del Mediterraneo. Con pochi soldi in tasca, un borsone di vestiti leggeri, la colla sulle dita per nascondere le impronte e non essere identificato, Gatti è salito sui camion che attraversano il deserto del Sahara e portano migliaia di migranti sulle coste del Nordafrica. Ha incontrato terroristi di Al-Qaida e scafisti senza scrupoli. Si è infiltrato tra i trafficanti come autista di un boss. È stato recuperato in mare, è sbarcato a Lampedusa. Lo hanno arrestato e ha lavorato nelle campagne del Sud tra i braccianti in condizioni disumane. Durante questo viaggio Fabrizio Gatti ha scoperto le voci dei protagonisti, i nomi dei criminali, le complicità dei governi, gli interessi economici e politici di chi guadagna dal traffico dei nuovi schiavi. E ha raccontato in questo libro la cronaca – drammatica, appassionante e tutta reale – della più grande avventura umana del terzo millennio.

Fabrizio Gatti ha così raccontato come è nato il libro da cui tutto ha avuto inizio:
L’idea di Bilal è nata nelle pagine di cronaca, da cronista mi trovavo a raccontare della vita dei nuovi abitanti della città di Milano che erano gli immigrati dei primi anni Novanta, noi da giornalisti parlavamo spesso di questa nuova realtà e di queste persone quando erano coinvolte in reati e raramente si andava nel profondo delle storie. Da lì, un po’ perché appartengo anch’io a una famiglia di emigranti, un po’ perché ritenevo che dovessi pagare un prezzo personale per raccontare queste storie, altrimenti mi sarei limitato a delle interviste, poi ognuno tornava nella sua vita dopo, e un po’ anche perché ero un po’ annoiato a vivere continuamente in redazione, mi è venuta l’idea di percorrere lo stesso viaggio, partendo dal Senegal e viaggiando verso est, attraversando tutto il Senegal, il Mali, il Niger, il sud della Libia, arrivando a nord e fare la traversata. Un progetto poi fallito perché il motore si è rotto alla partenza, però poi sono stato rinchiuso nel centro di identificazione di Lampedusa, ho attraversato l’Italia, lavorato nel settore dello sfruttamento della manodopera, edilizia e agricoltura, e sono tornato, un lavoro sul campo durato quattro anni, che inizialmente è stato pubblicato con reportage usciti sul Corriere della sera dove lavoravo fino al 2004 e poi su L’Espresso con tantissime copertine. Però, siccome tanto rimaneva nei taccuini, perché l’informazione ha degli spazi limitati, ho sentito anche la necessità di raccontare tutto questo viaggio dentro un abisso umano attraverso un libro, che non è stato solo un gesto comunicativo ma anche una medicina per me, perché quando si torna da un’esperienza così dura ci sono emozioni che vengono nascoste, coperte con un peso di cemento armato dentro di noi ed era necessario condividere un’esperienza così dura con tante persone in modo da non sentirsi soli come testimoni.
Quando Nils Hartmann gli chiede qualche ricordo dei suoi compagni di viaggio, Fabrizio Gatti si emoziona ricordando due scene tra le tante, che ha ancora davanti agli occhi e che riguardano due giovanissimi migranti:
Uno è Elvis, un ragazzino di 14 anni che nella sua ingenuità era partito dalla Nigeriai, l’ho incontrato nell’oasi degli schiavi, a Dirkou, un posto più o meno a metà strada in un viaggio che dura un mese e mezzo se va bene attraverso prima il deserto del Teneré e poi il deserto del Sahara. Elvis era stato rapinato e quindi non aveva più soldi per lasciare Dirkou e proseguire. Quando mi vede mi dice “io ho pagato il viaggio però mi mancano poche migliaia di franchi per pagare la tangente alla polizia” e io gli ho detto di non preoccuparsi, di nasconderci e che gli avrei dato io quei soldi. Solo che lui non appena li ha ricevuti è partito ed è andato di fronte al posto di polizia dove stavano caricando questi camion diretti verso le coste, con destinazione ultima l’Europa, con in mano questa banconota e un sotto ufficiale gliela ruba, gliela strappa di mano, lui protesta e il sottoufficiale si toglie il cinturone e lo frusta sul posto. Tra l’altro lui inciampando finisce dentro il filo spinato che era stato messo a protezione del posto di polizia, e da un lato si vorrebbe fare qualcosa ma di là ci sono delle persone armate, ci si sente dei vigliacchi perché non si riesce a fare nulla. Quello che ho potuto fare è stato medicare Elvis delle sue ferite, perché essendo caduto nel filo spinato potete immaginare come si è rialzato. L’altra storia, al di là dei compagni morti durante il viaggio, anche se tantissimi ce l’hanno fatta, è quella di Sophie, una ragazzina che era partita con il mito dell’Europa e per le ragazze il viaggio è perfino peggio perché vengono poi sfruttate sessualmente affinché ripaghino il percorso e purtroppo in quelle terre tra l’altro quello che i soldati o altre persone pagano loro equivale all’incirca a 50 centesimi a prestazione. Una delle tappe, che avrebbe portato Sophie in Libia costa intorno ai 300/350 euro quindi capite bene cosa voglia dire tutto questo. Però nonostante tutto sono storie umane, indipendentemente dalla posizione ideologica di ciascuno di noi, questo non ci interessa, ma sono storie umane della nostra epoca, delle avventure umane che sono spinte da un’immensa speranza. Se non ci fossero la speranza e l’ottimismo come motore non ci sarebbe questo viaggio e lo stesso ottimismo l’ho condiviso io ed è quello che mi ha riportato a casa.
Unwanted – Ostaggi del mare, dal libro alla serie
Ad adattare il libro non fiction di Gatti per lo schermo è stato Stefano Bises, uno dei nostri sceneggiatori più noti e di valore, autore tra l'altro di Gomorra – La serie, La mafia uccide solo d’estate, The New Pope, ZeroZeroZero e molto altro. Nel teaser trailer abbiamo visto il contrasto tra la vita a bordo della nave da crociera, dove la gente balla, beve, si diverte e si tuffa in piscina, e la tragica realtà di un tuffo di tutt'altro genere, quello per salvarsi la vita a cui sono costretti i naufraghi, col panico, le grida, il pianto dei bambini e le inevitabili vittime. Una scena di grande intensità e pathos. Le voci dei veri protagonisti delle storie di Bilal vengono espresse dagli attori che interpretano i sopravvissuti. In una seconda clip abbiamo assistito a un dialogo tra due crocieristi (Francesco Acquaroli e Marco Palvetti, che interpreta un carabiniere, assieme alle consorti) che esprimono due visioni opposte sull’emigrazione, opinioni che tante volte abbiamo ascoltato, quelle di chi è per l’accoglienza assoluta e di chi invece vedendo le conseguenze di questi arrivi incontrollati nel suo lavoro, pensa solo alle conseguenze. Bises ha commentato così i dubbi iniziali su una trasposizione indubbiamente difficile e le soluzioni trovate per trasformare queste tragiche storie in qualcosa di appassionante per il pubblico:
Quando ho letto il libro è stata una lettura molto dolorosa e al tempo stesso mi sembrava difficile tradurlo in qualcosa che qualcuno avrebbe voluto vedere. Perché tendenzialmente di queste storie non vogliamo saperne. E immaginare un'audience che si sarebbe messa davanti al televisore per vedere il calvario di queste persone, assistere agli episodi di violenza e brutalità che Fabrizio ha raccontato, dovendosi assumere una responsabilità, - perché quando guardiamo questa roba sappiamo di avere una responsabilità e questo è stato uno dei motivi per cui cerchiamo di non vederle e non ascoltarle - all’inizio ho detto ‘come si fa?’. Passato un po’ di tempo questo libro ovviamente mi lavorava dentro, era una storia che era un patrimonio narrativo e dall’altra parte c’è un dovere civile di racconto che è quello che ha animato Fabrizio che si è esposto molto di più. Poi per caso mi è capitato di leggere un trafiletto sulle statistiche di chi salva i migranti in mare e accanto a organizzazioni non governative, guardie costiere e navi mercantili, c’era una piccolissima quota che veniva attribuita a navi da crociera e mi è sembrato che questo potesse essere un modo per mettere in scena il reportage di Fabrizio collegandolo a noi, al nostro mondo in una maniera diretta, spettacolare, che in qualche modo inserisse l’elemento che nel libro di Fabrizio era rappresentato da lui stesso camuffato da migrante, ovvero che ci fossimo noi in questo racconto. Noi siamo i passeggeri della nave da crociera.

Ha un che di allegorico se volete e le navi da crociera per me sono un’ossessione, mi affascinano moltissimo, a partire da un bellissimo racconto di David Foster Wallace, “Una cosa molto divertente che ho fatto e che non farò mai più". Sono veramente una miniatura del nostro mondo, sia come stili di vita e abitudini che come campionario umano e l’idea che il primo contatto di queste persone che scappano dalla fame, dalle persecuzioni, fosse con quella miniatura deviante del nostro mondo mi sembrava anche da un punto spettacolare particolarmente efficace. Andava aggiunto un ulteriore elemento molto realistico, che era il fatto che quando queste persone vengono salvate da una nave crociera questa è diretta verso le coste del nord Africa, Tunisi è una delle rotte di queste navi nel Mediterraneo, quindi queste persone salvate dal mare vengono riportate nel luogo da dove fuggono, ed evidentemente, siccome il luogo da dove fuggono e tutto quello che hanno passato per raggiungere le coste è inferno puro, queste persone sono disposte a tutto pur di non farsi riportare indietro. E questo racconto si è colorato così di un elemento di tensione narrativa ma che era profondamente tematico.
Fabrizio Gatti ha raccontato la sua profonda emozione, quando ha visitato il set, nel sentire dire dagli attori le stesse cose che gli aveva detto ad esempio Sophie, e ha confessato di aver proprio pianto e di aver provato la stessa emozione la prima volta che ha visto il teaser del film. Ha poi aggiunto “Paradossalmente nel libro la voce narrante sono io perché questo viaggio l’ho fatto da infiltrato e l’attenzione di Stefano nei miei confronti, la delicatezza con cui la storia è stata adattata alla serie per me è stato un esempio di grande umanità e rispetto per tutto il lavoro fatto. Poi guardando il teaser e leggendo la sceneggiatura mi sono ritrovato tantissimo nelle parole, nell’atteggiamento e nel comportamento del capitano della nave interpretato da Marco Bocci, che nella serie si chiama Arrigo Benedetti, perché io come lui non ero una persona consapevole quando sono partito, ero partito con ingenuità e io stesso da giornalista, durante il lavoro sul campo, e quella frase è straordinaria, non ho fatto il mio dovere, perché ho violato la legge dando alle autorità un nome finto, mi sono fatto prendere in un centro di detenzione non dando le mie generalità e per questo sono stato processato, ma quella frase è straordinaria “esistono diversi tipi di dovere, professionale, morale, civile. Non ho fatto il mio dovere, ho fatto la cosa giusta". Io nel momento in cui sono partito ero sicuro dentro me stesso che non stavo facendo il mio dovere ma ritenevo di fare la cosa giusta ed è in questo che mi ritrovo tantissimo sia in queste parole che nell’adattamento di Stefano e Oliver che hanno fatto questa serie straordinaria”. E da quel che abbiamo visto e sentito, nel resto dell’incontro, Unwanted sarà davvero una serie da non perdere, di quelle che certo ci fanno stare male, ma ci tengono avvinti a storie vere, di persone come noi, ci spingono a riflettere su di noi e ci migliorano, come la bella serialità sempre più spesso riesce a fare.