Was Marielle weiß: la recensione della commedia con Julia Jentsch presentata a Berlino

17 febbraio 2025
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Una commedia sbrigativa e algida su una figlia dodicenne che improvvisamente acquisisce i poteri telepatici di sapere tutto quello che fanno e dicono i suoi genitori. Trovata per qualche risata appesantita da intenzioni morali. La recensione di What Marielle Knows di Mauro Donzelli.

Was Marielle weiß: la recensione della commedia con Julia Jentsch presentata a Berlino

Una cupa coltre di nuvole si annida nella quotidianità della famiglia senza nome al centro di una satira sui temporali della vita di coppia, con l’aggravante di una figlia dodicenne che tutto osserva. Ma non solo, tutto conosce e ascolta. È infatti lei la persona cui si riferisce il titolo Was Marielle Weiss, Quello che Marielle sa, cioè tutto. Il motivo è che improvvisamente l’agente scatenante di un ceffone innesca una sua abilità telepatica che la porta a vedere e ascoltare ogni cosa riguardante Julia e Tobias, i suoi genitori. Il regista, all’opera seconda, Frédéric Hambalek, sembra volerci dire che li conosciamo come coppia perfetta, solo perché hanno una casa di design, ma anche l’arredamento ci fa intuire l’algidità che regna sovrana là dentro. Allora dove sarebbe la perfezione, ci viene da domandarci? Nel bilancio a fine mese, probabilmente. Appunto.

È forse partendo da questo assunto che si può apprezzare al meglio una satira paradossale, con un punto di partenza che perde di vista la possibile spensieratezza e si indirizza verso il binario di un affresco su una famiglia tedesca alle prese con mille non detti e un’anaffettività che coinvolge anche la generazione precedente, quella della nonna. Il terreno di gioco è in realtà un’arena per gladiatori, una satira che perde sfumature benevole per diventare morale e delineare rapporti di forze, una sfida cinica priva di calore e umanità al di là del ragionevole. Si prende sul serio, e anche quando vuol fare ridere sceglie strumenti come l’umiliazione e il potere, che sia nell’atto sessuale o nell’altro ambiente ferale raccontato, quello lavorativo.

Il tutto visto decisamente dal punto di vista dei grandicelli, con la figlia che è mera funzione narrativa. Il suo improvviso super potere fa presto capire ai genitori che è finita la pacchia, niente flirt pesanti in ufficio o simulazione di grande sicurezza nella vita del padre al di fuori della mura domestiche. Le bugie hanno finito la loro serena esistenza impunite, anche quelle bianche o bianchissime, perfino a fin di bene, quelle che caratterizzano un rapporto fra genitori e figli. Ecco quindi che si innesca il gioco di manipolazione e bilancio di poteri che Hambalek sembra ritenere al centro della vita familiare.

Conflitti e conseguenze, prevedibili momenti di imbarazzo e, al limite, una scena e una trovata che possono far sorridere. Per il resto, francamente, di comicità riuscita non se ne intravede neanche un appiglio, per non parlare della splendida dote di questo genere: la capacità liberatoria, qui derubricata a scarico di nevrosi. Sfumature non pervenute, è tutto monolitico e privo della dimensione del gioco, sembra più rabbioso che comico, questo triangolo rigorosamente scaleno, in cui in realtà si guarda solo alla responsabilità personale e si ignora il passo avanti verso l’altro.

Ci si divertisse veramente, almeno.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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