La petite dernière: la recensione del film di Hafsia Herzi in concorso a Cannes
Una ragazza lascia la famiglia per studiare filosogia a Parigi. I suoi orizzonti si allargano, mentre cerca di conciliare la sua omosessualità con la fede musulmana. La recensione di Mauro Donzelli del film di Hafsia Herzi presentato in concorso al Festival di Cannes 2025.
Una famiglia come caldo rifugio, in cui Fatima ha vissuto per 17 anni, insieme a due sorelle, a genitori presenti, con una madre affettuosa e pronta a cucinare prelibatezze. Fin dalla prima scena capiamo come Hafsia Herzi, attrice sempre più in ascesa, lanciata da ragazza dal magnifico Cous cous di Kechiche, qui alla terza regia per il cinema, voglia allontanarsi dalla rappresentazione della famiglia di origine maghrebina come luogo di problematicità. Lo fa adattando un romanzo autobiografico della trentenne Fatima Daas, nelle cui pagine si definisce “la mazoziya, l'ultima. Quella per cui non ci si è preparati”. È francese di origine algerina, musulmana e lesbica, e non vuole rinunciare a nessuna delle sue identità.
La petite dernière inizia con una preghiera islamica intonata da una ragazza velata e finisce con dei palleggi al pallone di un'ottima calciatrice, la stessa protagonista, che indossa un completo appena regalatogli dalla madre. È una questione di vestizioni e abiti, di riti e codici da decifrare e far coesistere, questa storia. È la ricerca del proprio spazio di una giovane che vuole conciliare e indossare più panni, che vive fra due universi in entrambi dei quali si sente in pieno sé stessa: la casa di famiglia nella periferia della capitale, segnata dalla religione e da una serena quotidianità, in cui l’amore e la sessualità sono argomenti tabù, e poi la Parigi degli studi appena avviati in filosofia, ma anche della scoperta di un’altra identità, sperimentando la sessualità in un contesto libero in cui può evitare di angosciarsi, perché “bugiarda e peccatrice”. Ma il viaggio per acquisire questa consapevolezza non è semplice, per Fatima, mentre mette a frutto le abilità acquiste come brava studentessa, in cerca della donna adulta che ha sempre sognato di poter diventare.
Per farlo si interroga e arrovella, conosce ragazze e amanti, si rivolge anche al suo imam, ottenendo scarso conforto e la conferma di una lettura retrograda dell’omosessualità come fonte di peccato, “ancora prima dell’arrivo del profeta”, arrivando a rievocare “il popolo di Lot" le poco raccomandabili vicende di Sodoma e Gomorra. Herzi insegue un naturalismo nella messa in scena, cerca le imperfezioni del quotidiano che ipnotizzano, ispirandosi come altre volte allo stile di Abdellatif Kechiche, restando però nell’alveo di una corretta applicazione, evita cadute ma non regala neanche momenti particolarmente memorabili. Manca la pulsione e la passione, il senso di urgenza non emerge in pieno, non privo di un sapore meccanico, come le scene di intimità. Quella lotta contro la “vergogna” che ha spinto la Daas ha cominciare a scrivere risulta addomesticata, anche a causa di una protagonista, scelta dopo un lungo casting selvaggio, non in grado di interiorizzare e rappresentare queste montagne russe emozionali.
A emergere è la naturalezza di una giovane donna che non vuole doversi privare di una parte cruciale della propria identità, pronta con coraggio e a sguardo fiero a rivendicare quei desideri così totalizzanti, che da nascenti si consolidano nella conflagrazione dell’esperienza quotidiana nella grande città, pronta a inseguire una chiave armonica fra tradizioni e sentito, per un’emancipazione che non voglia dire negazione delle radici e della famiglia, convinta che siano i radicati pregiudizi che la circondano a rappresentare formule tramandate sempre più vuote.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito