La città delle donne, film diretto da Federico Fellini, racconta la storia di Marcello Snàporaz (Marcello Mastroianni), che in viaggio in compagnia della moglie Elena (Anna Prucnal) su un treno, adocchia una misteriosa donna e decide di seguirla, scendendo alla sua stessa fermata. Si ritrova così in un albergo, nel quale si sta tenendo un animato congresso di femministe, che si esprimono tramite slogan preconfezionati, ma che l'uomo non riesce a comprendere fino in fondo. Sentendosi attaccato, Marcello prova a fuggire dall'hotel, chiedendo un passaggio a un gruppo di ragazze, che lo conducono al castello di Katzone (Ettore Manni), un guru dell'eros, che vive circondato da donne procaci e sensuali, tutte sue conquiste e simboli della donna-oggetto.
Durante la notte, Snàporaz scopre un passaggio segreto sotto il letto della camera che gli è stata assegnata e decide di scivolare via per ritrovarsi prigioniero in una gabbia. Condotto in tribunale dalle femministe, l'uomo viene messo sotto accusa e condannato al linciaggio. Marcello riesce, però, a divincolarsi e si sveglia sul treno, seduto di fronte sua moglie...
Era un film difficile per Fellini La città delle donne appassionante scommessa con se stesso e contro se stesso, perché la sua intuizione naturale dei fatti, la sua felice capacità di rappresentare senza filosofare, si scontrava con un nodo ideologico, con un inciampo di attualità storica (il femminismo) posto a contrastare le sue muse di sempre, le donne.Ne è uscita all'inizio una distanza provocatoria con uno stile volontaristico che ci ha tenuto un poco in sospeso. Probabilmente non ha nessuna importanza sapere se Fellini è femminista o antifemminista (le sue origini più fervide sono, come per tanti, maschiliste e donnivore). Conta che Fellini si sciolga dentro il suo tema storico, senza paura di ricevere accuse o voglia di apparire generoso. (Stefano Reggiani, "La Stampa", 29 marzo 1980).
Ancora una volta, come sempre o quasi sempre del resto, egli [Fellini] è diventato la madame Bovary della sua adolescenza e si rigira compiaciuto nel calore e nel calduccio che gli dà la possibilità di trovarsi in una "troupe" ben collaudata, fra macchinisti fedeli che gli simulano treni in corsa e mare risciacquato sulle rive di un'inevitabile spiaggia romagnola, come se si trovassero nell'officina di Mèliès. Del resto, sempre più Fellini conferma di essere il più grande e geniale erede di Mèliès che sia mai esistito [...]. Soltanto che non sempre le magie riescono col buco. E la tentazione de La città delle donne di fondere una specie di sbalordita confessione di divertita impotenza di fronte alla "nuova" donna di oggi insieme alla nostalgia verso la "vecchia" donna di ieri [...], pur riproponendo la genialità smisurata di Fellini in tutta la sua solitaria furbesca sfrenatezza, non raggiunge che di rado quella armonia di estro, di ordine, di fantasmagoria da fumetto, di ironia da "pamphlet" che deve aver stimolato da anni la fantasia dell'autore. (Claudio G. Fava, "Corriere Mercantile", 4 aprile 1980).
Il film è un altro aggiornato Casanova, dove non solo gli amatori sono infelici, ma anche le donne hanno la loro parte di comprensione e dunque di irrisione. (Stefano Reggiani, "La Stampa", 29 marzo 1980).
È un catalogo di emozioni, ora grottesco ora farsa lunare, mediante il quale approssimarsi al reale con puntate dolorose contro la strage della femminilità compiuta dal femminismo aggressivo e un'ironia plenaria con cui Fellini, assolvendosi di quanto c'è di più frivolo nella sua chiacchierata, ci offre l'unica chiave che può darci la cognizione del tempo. A noi è piaciuta con riserva. Vi abbiamo trovato qualche squilibrio nella qualità dell'immagine, ci è sembrata un po' molle nel nocciolo, qua e là insidiata da strappi narrativi o da forme dialettali poco intelligibili, e stilisticamente meno omogenea del consueto. Ma ci siamo rifatta la bocca in molti luoghi. (Giovanni Grazzini, "Corriere della sera", 29 marzo 1980).
Una fiaba che Fellini si è divertito a raccontargli (allo spettatore) ripercorrendo intenzionalmente tutte le tappe del suo cinema, qua dando spazio, ancora una volta, ai ricordi, come in Otto e mezzo e in Amarcord, là facendo il punto di nuovo sul presente, come nella Dolce vita e in Prova d'orchestra, alternando l'incubo al sogno, la visione allo scherzo e all'aneddoto, moltiplicando e variando le lingue e le tecniche, riscoprendo e rileggendo l'immaginato e il reale con un estro e una fertilità di invenzioni da lasciare spesso affascinati e stupiti. (Gian Luigi Rondi, "Il Tempo", 29 marzo 1980).
Ettore Manni morì improvvisamente il 27 luglio 1979, durante le riprese del film.
Nel 1980 il film si è aggiudicato quattro Nastri d'Argento come Miglior film, Migliore fotografia, Migliori costumi e Migliore scenografia.
Attore | Ruolo |
---|---|
Marcello Mastroianni | Snaporaz |
Anna Prucnal | Elena |
Ettore Manni | Dr. Katzone |
Bernice Stegers | Signora del treno |
Jole Silvani | Motociclista |
Donatella Damiani | Soubrettina |
Fiammetta Baralla | "Ollio" |
Helene G. Calzarelli | Femminista |
Catherine Carrez | Comandante |
Mara Ciukleva | Una vecchia signora |
Marcello Di Falco | Un omosessuale |
Jill Lucas | Gemella |
Viviane Lucas | Altra gemella |
Fiorella Molinari | Punk |
Silvana Fusacchia | Pattinatrice |
Gabriella Giorgelli | Pescivendola |
Dominique Labourier | Femminista |
Alessandra Panelli | Massaia |
Sibilla Sedat | Giudice |
Loredana Solfizi | Femminista nera |
Carla Terlizzi | Femminista |
Rosaria Tafuri | Sara, la soubrette |
Sylvie Mayer | Femminista |
Ecco tutti i premi e nomination Nastri d'Argento 1980