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La Storia ha bussato alla porta dell'Academy, e l'Academy ha risposto: un commento agli Oscar 2020 e al trionfo di Parasite

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Il trionfo di Parasite e di Bong Joon-ho è segnale importante nella storia degli Oscar, che per una volta hanno avuto l'occasione di fare la cosa giusta, e l'hanno fatta.

La Storia ha bussato alla porta dell'Academy, e l'Academy ha risposto: un commento agli Oscar 2020 e al trionfo di Parasite

Non ci credevo. Non ci speravo. E invece, alla faccia del mio scetticismo, è andata così. Per una volta, l'Academy ha avuto l'opportunità di fare la cosa giusta, e l'ha fatta. La Storia ha bussato alla loro porta, e i membri dell'associazione che assegna gli Oscar hanno risposto: come quando suona il postino con una raccomandata, e tu sei in casa e rispondi, e non ti ritrovi l'avviso di giacenza nella buca delle lettere con tutte le scocciature che ne conseguono.
Su sei nomination, Parasite conquista quattro statuette. E a stupire non è solo la percentuale di realizzazione - il 66,6% - ma soprattutto il fatto di essere andato a segno lì dove il risultato pesa maggiormente: come miglior film internazionale (scontato, d'altronde), nella sceneggiatura originale, e ancora di più nella migliore regia e come miglior film.
Primo film in lingua non inglese - e quindi coi sottotitoli - della storia a portare a casa il massimo riconoscimento (The Artist era francese, ma anche muto. E - cosa ancora più importante - ambientato a Hollywood); primo a vincere come miglior film e miglior film straniero o internazionale, come si chiama adesso; e quello che è riuscito a ricomporre l'accoppiata miglior film - miglior regia che, ultimamente, non era affatto scontata.
Con buona pace dell'umiltà un po' studiata ma al tempo stesso molto sincera con la quale Bong Joon-ho, pochi giorni fa, andava dichiarando che le nomination cui teneva di più eran quelle per il montaggio e la scenografia.

L'impresa di Bong e di Parasite agli Oscar 2020 è ancora più notevole se si pensa che, fino a ieri, il grande favorito era 1917, una vera e propria corazzata cinematografica, forte di tutto quello che solitamente l'Academy non solo ama ma quasi venera, e che arrivava alla Notte degli Oscar con la sicurezza spavalda del Golden Globe, del BAFTA, del DGA Award e del PGA Award che aveva messo in saccoccia fino a questo momento. E invece, ecco che il film di Sam Mendes si è dovuto fare da parte, e accontentarsi - possiamo proprio dirlo - del premio andato alla fotografia di Roger Deakins e ai tue "tecnici" per gli effetti visivi e il montaggio sonoro.
Per gli altri, briciole o poco più, in linea con una politica recente dell'Academy che cerca di atomizzare più che concentrare i premi su un unico titolo: due statuette a Joker (quella scontata per il miglior attore, andata a Joaquin Phoenix e quella per la miglior colonna sonora, andata a Hildur Guðnadóttir), due per C'era una volta a... Hollywood (Brad Pitt e scenografia), due tecniche per Le Mans '66 - La grande sfida (montaggio e sonoro), una per Jojo Rabbit (sceneggiatura non originale), Piccole donne (costumi), Storia di un matrimonio (Laura Dern miglior attrice non protagonista). E così via.
Da sottolineare, qui, che la compositrice islandese di Joker è la prima donna a vincere nella categoria, e che Brad Pitt porta a casa un Oscar per la prima volta nella sua carriera. È il secondo, invece, quello vinto da Renée Zellweger come miglior attrice per Judy, a sedici anni da quello ottenuto per Ritorno a Cold Mountain. Ed è stato bello che l'attrice abbia voluto ricordare che la donna che interpreta nel film, la leggendaria Judy Garland, l'Oscar non lo vinse mai.

E allora torniamo al discorso iniziale. Al fatto che per una volta l'Academy ha fatto la cosa giusta.
Dispiace magari che Scarlett Johansson, doppiamente nominata dopo essere stata ignorata per anni e anni, sia tornata a casa senza premi. O che il magnifico The Irishman di Martin Scorsese sia stato completamente snobbato (come peraltro tutti gli altri film Netflix, compreso lo Storia di un matrimonio che ha vinto solo per Laura Dern).
Ma se facciamo un passo indietro, e guardiamo alle cose con prospettiva, è impossibile non essere contenti per un'edizione davvero storica.
Il trionfo di Parasite (tra i cui produttori, si notava, c'è anche una donna) e di Bong Joon-ho è il giusto riconoscimento ai valori in campo, ma è anche simbolicamente rivoluzionario, in un'epoca dove barriere, confini, nazionalismi e particolarismi stanno andando per la maggiore.
Hollywood ha spalancato le sue porte a un cinema e una cultura diversi ma capaci di essere universali, e a una delle industrie cinematografiche più solide e fiorenti e artisticamente più vibranti del mondo intero (dalla quale anche noi in Italia avremmo molto da imparare). Ha detto al pubblico di tutto il mondo che le storie, quando solo belle e sono ben raccontate, non hanno nazionalità, lingue, barriere o confini, e sono bene comune di tutti.
Speriamo che questo messaggio non rimanga inascoltato e che quelle porte rimangano aperte davvero, e non siano solo un gesto passeggero.
E che, magari, lo sguardo attento e giusto dell'Academy sia in futuro tale anche in fase di candidature, per non perdere l'occasione di dare chance anche al Diamanti grezzi, ai The Farewell e agli Adam Sandler di turno.

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