Robin Hood, recensione del film di Ridley Scott

12 maggio 2010
2.5 di 5

Camminare tra Storia e mito, è sempre un difficile esercizio di equilibrismo. Quando poi del mito si vuole raccontare la storia inedita, la questione raggiunge un grado di difficoltà ancora superiore. Sarà stato anche per questo che il progetto di Robin Hood ha subito numerose metamorfosi nel corso degli anni, assumendo solo "di recent...

Robin Hood, recensione del film di Ridley Scott

Robin Hood, recensione del film di Ridley Scott


Camminare tra Storia e mito, è sempre un difficile esercizio di equilibrismo. Quando poi del mito si vuole raccontare la storia inedita, la questione raggiunge un grado di difficoltà ancora superiore. Sarà stato anche per questo che il progetto di Robin Hood ha subito numerose metamorfosi nel corso degli anni, assumendo solo "di recente" la forma che ha adesso: quella, appunto, di origin story di un personaggio che il cinema ha raccontato e iconizzato fin dai tempi del muto. Ecco quindi che film di Ridley Scott termina proprio laddove altri hanno cominciato la loro storia, con l'esilio nei boschi da fuorilegge, il seme del conflitto con lo sceriffo di Nottingham gettato, l’odio del re Giovanni sedimentato.

Per arrivare a questo punto conclusivo (già dichiarato possibile punto di ripartenza), Scott mette in campo la variegata gamma delle sue patinate estetiche più recenti, mordendo evidentemente il freno nelle fasi preliminari del film, dando poi briglia sciolta alla sua retorica dell'otturatore veloce nel terzo atto della narrazione, lasciando che l’estetismo galoppi selvaggio e senza remore.
Ma soprattutto, con lo sceneggiatore Brian Helgeland, struttura un racconto in cui di un Russell Crowe uomo in calzamaglia viene fatto un bizzarro ibrido metacinematografico che incorpora in sé il Massimo del Gladiatore, ma anche il William Wallace di Braveheart, oltre che scontati elementi proprio della mitologia dell’eroe del titolo. Nulla di nascosto né sconvolgente, ché Robin Hood quei titoli li cita esplicitamente, così come cita Giovanna d’Arco (quello di Besson), lo sbarco di Salvate il Soldato Ryan e financo Il destino di un cavaliere scritto dallo stesso Helgeland.

E, quindi, nessuno scandalo: perché la rifondazione e riproposizione dell’eroe classico, oggi, si fa con quel che si può e si ha a disposizione, immaginario cinematografico a breve termine in primissima battuta.
E attraverso un machismo quasi d’antan, solo appena stemperato da un’ironia goffa nella sua autoimposizione: tanto che le uniche figure femminili del film sono la lunare Blanchett, la ninfetta Seydoux e la veterana Eileen Atkins,i cui personaggi sono, rispettivamente, punita nella sua mascolinizzazione per permettere un salvataggio vecchio stile la prima, sostanzialmente inette e succubi nonostante il tentativo iniziale di dargli carattere le seconde. Donne che stanno al posto loro.
E, infine, la rifondazione si fa con quel procedimento oramai standardizzato di ricerca identitaria delle proprie radici che però, invece di conferire al personaggio spessore, personalità ed appeal epico, finisce in questo caso (come in molti altri) con il ridurlo ad eroe comune. Nel senso anonimo e spersonalizzante del termine.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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