Stranger Things, oltre la nostalgia: il vintage degli anni Ottanta e il sottosopra del nostro presente
Abbiamo visto per voi la mini serie Netflix di cui tutti parlano, e queste sono le nostre impressioni.
In un libro molto bello che si chiama "L'invenzione della nostalgia", lo storico e critico del cinema Emiliano Morreale indicava in 20 o 30 anni il tempo necessario affinché un film, una canzone, un programma tv o qualsiasi altro prodotto culturale potesse tornare alla ribalta ammantato dell'abito nuovo e modaiolo del Vintage. E, a guardare bene, questo prepotente ritorno degli anni Ottanta - di quegli anni Ottanta fino a poco tempo fa vituperati e ridicolizzati dai più, e visti in maniera più critica di quanto meritassero – può essere tranquillamente fatto cadere in questa ciclicità storica.
Basta poi riflettere un po' per accorgersi che il mondo in cui viviamo oggi, quello di questi anni Dieci del 2000, così complesso, moderno, veloce, contraddittorio e contrassegnato da crisi e emergenze costanti e perenni, le sue radici ce le ha belle piantate proprio in quel decennio lì.
Gli anni Ottanta dello yuppismo e delle euforie in Borsa, che ci hanno lasciato in eredità il capitalismo selvaggio e la crisi finanziaria; gli anni Ottanta dei primi computer, dei primi videogame, e della nascita di Internet, che hanno dato il via alla rivoluzione digitale; gli anni Ottanta della politica ultraliberista, dello sgretolarsi delle ideologie e del Muro di Berlino, che ci hanno lasciato in eredità il caos geopolitico; gli anni Ottanta dell'esplosione mondiale e italiana della tv commerciale, che ha lastricato il cammino per i satelliti e i digitali terrestri a venire.
Perfino gli anni Ottanta in cui si è vissuto quel Rinascimento delle serie televisive che stiamo rivivendo anche noi, in maniera ancora più prepotente, da qualche stagione.
Di tutto questo, del naturale e inevitabile ritorno degli anni Ottanta in chiave nostalgica, e dell'importanza fondamentale che quel decennio ha avuto per il nostro presente, i fratelli Ross e Matt Duffer (semisconosciuti con alle spalle qualche corto, la sceneggiatura di alcune puntate di Wayward Pines e un film passato inosservato dal titolo Hidden) sono stati ultra-consapevoli: perché Stranger Things è davvero un concentrato di tutto questo, e non solo un'operazione che omaggia e cita in maniera sfacciatissima lo Steven Spielberg della Amblin da poco rilanciata (guarda un po'...), il cinema e la musica di John Carpenter, la letteratura, le atmosfere e l'amore per i personaggi di Stephen King.
Certo, quello citazionista è l'aspetto più immediato e evidente di una miniserie che lascia intuire fin dalla prima delle sue otto puntate il suo essere un cocktail dosatissimo di E.T., I Goonies, Stand By Me, Fenomeni paranormali incontrollabili, Poltergeist, Incontri ravvicinati del terzo tipo e delle commedie di John Hughes, che i Duffer Brothers insaporiscono con mille altri riferimenti sfacciati e meno sfacciati. Non solo degli o dagli anni Ottanta, perché nel corso delle puntate, oltre che a Alien o a Videodrome, si ammica anche a cose come X-Files o perfino il videogame della serie di Silent Hill.
Ma sotto (ed è proprio il caso di dirlo), Stranger Things nasconde molto di più.
Partiamo comunque dalla superficie, da un'operazione che sembrerebbe analoga a quanto fatto pochi anni fa da J.J. Abrams con Super 8. La differenza fondamentale, tra quel film e questa serie, è che il primo - per quanto cercasse di non esserlo - portava ancora addosso i segni evidenti del postmoderno, di un citazionismo che metabolizzava e risputava fuori l'originale ammantandolo di malizia e spinta verso il futuro. La seconda, invece, si abbandona ai modelli con quella che sembra essere quasi una candida ingenuità, una pulsione nerd atta a ricreare un mondo e uno stile per una mera soddisfazione estetica, ma che lo fa tanto sfacciatamente da voler essere fissata nel passato. A rimarcare, non a caso, tutte le differenze con l'oggi. E figuriamoci col futuro.
Stranger Things, insomma, è più di “una serie anni Ottanta”. È una serie che, dal punto di vista narrativo e anche formale, potrebbe essere uscita da una macchina del tempo, tale è il rigore e la mancanza di velleità postmoderne con le quali i Duffer raccontano la loro storia.
Nostalgia nerdica e basta, allora? Eh no, perché Stranger Things dentro il presente ci sta eccome. Ci sta per contrapposizione. Ci sta con la storia che racconta, con la sua lucida nostalgia e con l'ansia di chi guarda con la prospettiva della Storia al nostro travagliatissimo oggi.
Super 8, per tornare un attimo all'opera di Abrams, era un film che ammiccava al passato ma stava tutto dentro il cinema del (suo) presente anche e soprattutto per linguaggio e ritmi. La serie dei Duffer, no: e anche per questo, ci scommetto, questa storia è stata pensata per la tv e non per il grande schermo.
La tv e la lunghezza di una serie (per quanto di sole otto puntate) serve ai fratelli americani a potersi permettere senza problemi o limitazioni di alcun tipo quella distensione del racconto che nel cinema di oggi (soprattutto di genere, ma in generale quello maistream) non ci si può più permettere.
Ogni taglio dell'inquadratura, ogni stacco di montaggio che arriva ad alcuni secondi di distanza da quando sarebbe “contemporaneo” aspettarsi, serve a rimarcare una distanza. Ogni volto scelto con cura incredibile (non solo il cast dei protagonisti, ma anche tutti gli altri; tre esempi per tutti: il professore di scienze, Mr. Clark; Benny Hammond, il primo a ospitare Eleven; Donald, il padrone del negozio dove lavora Joyce), ogni relazione tra personaggi scritta e stretta con la forza della semplicità, servono a (ri)portarci a trent'anni fa.
Ok, e il presente allora? Il presente sta dall'altra parte: sta in quello specchio al negativo del mondo di Stranger Things che è l'Upside Down, la Vale of Shadows dove regnano decadimento, morte e mostri.
Lo dicevo all'inizio: le radici del mondo di oggi stanno negli anni Ottanta, specialmente quelle delle nostre tante crisi. E se Stranger Things è il racconto di un gruppo di persone che cercano di salvare un ragazzino finito in quel mondo brutto e cupo e pericoloso lì, è anche quello di un passato che cerca di salvare un presente.
Stranger Things, nel suo carico di nostalgia, nella riproposizione totalizzante e ossessiva e straordinariamente mimetica dei suoi modelli, nel suo recuperare narrativamente personaggi, relazioni e sentimenti elementari nel senso più nobile del termine, è lo specchio di ciò che siamo e ci siamo dimenticati di essere. È il racconto di tanti noi stessi che vengono a cercarci, a cercare di salvarci dal nostro mondo.
Perdersi completamente dentro Stranger Things, allora, dimenticare per qualche ora quello che c'è fuori dallo schermo per imparare rapidamente a volere bene a quei personaggi, a provare i sentimenti che provano loro, commuoversi con loro per gli esiti dell'avventura di cui sono protagonisti e per le loro sorti, esattamente come ci si perde completamente dentro quel film meraviglioso (e tutto anni Ottanta, guarda caso) che è Tutti vogliono qualcosa, non è solo evasione. È guardarsi dentro, recuperare qualcosa di più profondo dei noi stessi di trent'anni fa. È trovare, con la consapevolezza, la forza di fare del nostro presente - e del nostro futuro - un posto migliore.