La “C” sta per cancro
Non avere speranze può migliorarti la vita? Arriva su Showtime The Big C, la storia di una donna che tenta di migliorare la sua noiosa esistenza dopo aver scoperto di avere un melanoma.

In realtà, osservando da una diversa prospettiva il primo episodio di The Big C, è facile rendersi conto che quella “C” sta per molte cose. Alcune superflue, come i capricci e quegli inutili punti su cui decidiamo spesso di ostinarci fino a rovinare un rapporto. Altre molto gravi, così sconvolgenti da essere incapaci di pronunciarne il suono. Si propone, almeno per il momento, come un gioco divertente scorgere i continui richiami al titolo, ma la dura realtà di questa storia porta il telespettatore a capire in fretta che esiste una sola grande “C” in questo show, e sfortunatamente è la peggiore immaginabile.
The Big C ha fatto il suo debutto pochi giorni fa sulla rete via cavo Showtime. E’ davvero un piacere constatare gli enormi balzi in avanti compiuti da una rete che oggi, grazie anche a questa ennesima produzione di spessore, possiamo tranquillamente annoverare tra i principali competitor di un’istituzione qual è (o è stata?) HBO. Siamo passati dalla frivolezza e dalle sconcezze ragionate di qualche anno fa, a serie tv costruite attorno a un unico ruolo, forte e sfaccettato. Gli eventi hanno ceduto il passo ai pensieri, agli stati d’animo, alle micro espressioni di gente che possiamo definire normale. Eppure si tratta di una normalità che, per ragioni abbastanza evidenti, non siamo abituati a incontrare in tv, facendocela sembrare quindi una novità interessante. Una formula che, dati alla mano, funziona, e questo fa ben sperare sul futuro di un mezzo che dopo oltre cinquant’anni non può più soltanto intrattenere.
Paragonare il compito di The Big C a quello di un gruppo di sostegno è azzardato, ma è innegabile che questa nuova produzione Showtime eserciti un fascino e un’utilità maggiori su chi - e sfortunatamente sono tanti - ha vissuto, o peggio, vive ancora un’esperienza simile a quella che sta mandando in pezzi la vita di Cathy Jamison. Chi non ha avuto la sua stessa sfortuna, trova quasi disagevole l’incapacità di poter condividere con lei un simile dolore. Tuttavia, l’interpretazione molto convincente di Laura Linney (talmente brava da far sembrare un secolo il tempo che la separa dall’edizione 2011 degli Emmy Awards, alla quale senz’altro otterrà una nomination), insieme agli stratagemmi narrativi ideati da Darlene Hunt, rendono l’impresa meno difficile. Cathy è la sintesi assoluta della middle class. Una donna che non ha preso mai note alte. Devota verso la casa e la famiglia. Rigida, tradizionalista e scaltra con chiunque: il figlio, il marito, i suoi studenti. Ma come accade spesso nei sobborghi, si tratta solo di un castello di carte molto bello ed elaborato, ma anche molto instabile e artificioso. Cathy, infatti, si è appena separata dal marito, che considera eccessivamente trasandato e dipendente dai videogame. Ha cresciuto un figlio indisciplinato e sboccato, il quale avrà infranto molte più regole di quelle che lei gli ha imposto. Ha un fratello ambientalista che vive per strada mangiando gli avanzi di gente che non conosce. Odia i vicini e insegna a degli studenti i quali, oltre a essere privi della minima motivazione, sono anche scortesi e saccenti.
Non è una vita facile quella vissuta da questa donna, ma del resto trovatene una che lo sia. Le fragili travi di legno che sorreggono la sua esistenza, fatta di compromessi e rinunce di cui neppure lei conosce il senso, cedono immediatamente sotto il peso di una notizia sconcertante: ha un melanoma al quarto stadio. La sua reazione, però, non è una di quelle tipiche, almeno in tv. Esteriormente, non sembra che la tragica novità la stia distruggendo, ma si tratta di un comportamento condizionato dalla sua incapacità di parlarne, di renderla una notizia di dominio pubblico, come se non ammetterlo la rendesse meno reale e pericolosa. Curiosamente, nonostante il cancro sia il tema centrale di questo show, almeno nell’episodio pilota la parola “cancro” non è mai pronunciata. Questo perché le ambizioni di The Big C, e la direzione che Hunt ha voluto dare alla storyline, sono altre. Si nota in fretta che il cancro non è il punto d’arrivo, il drammatico colpo di scena che conclude la storia, bensì il suo punto di partenza.
Se la rappresentiamo con un diagramma, essenzialmente sono due le diramazioni che partono da The Big C. Il primo ramo rappresenta il tempo. Chi convive con il cancro sa di non averne molto altro a disposizione. Il concetto è spiegato chiaramente con due metafore: quella utilizzata nelle immagini promozionali, nelle quali una Laura Linney fintamente felice vive all’interno di una clessidra la cui sabbia crolla inesorabilmente vero il basso, e la scelta di ambientare la serie a Minneapolis, città dell'America settentrionale dove, come Cathy dice all’inizio dell’episodio, le estati sono troppo brevi. L’alto ramo è dedicato al cambiamento, un’altra parola che inizia con la “C”. Appare da subito evidente il desiderio di Cathy di sfruttare la malattia e il poco tempo che le resta per cambiare le molte cose che non vanno bene nella sua vita pressoché insignificante, e al tempo stesso cercare di lasciare un segno indelebile del suo passaggio.
In tv esiste un criterio per capire quando una serie è arrivata “alla frutta”: se nella trama spunta improvvisamente una gravidanza inaspettata o una diagnosi di cancro, allora è arrivato il momento di preoccuparsi. The Big C sfata questo concetto dimostrando per la prima volta che si può sfruttare un tema facile come il cancro per realizzare un racconto complesso, che non si riassume nella tipica piramide diagnosi-chemioterapia-guarigione. The Big C mette in campo tante variabili nuove, affianca alla malattia tante altre malattie esistenziali che fanno parte della vita di tutti i giorni, cerca di dimostrare che il cancro non è soltanto una patologia, ma anche uno stato mentale. La scena finale in cui Cathy ammette finalmente a se stessa di essere spacciata, è la straordinaria promessa di uno show che ha tutti i numeri per conquistare il rispetto del pubblico: un’ottima sceneggiatura, dinamiche appassionanti tra i personaggi, e soprattutto un cast capace di renderle convincenti; non solo la Linney, ma anche Oliver Platt e la candidata all’Oscar per il suo ruolo in Precious Gabourey Sidibe.