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M. Il figlio del secolo: la nostra intervista esclusiva allo scrittore Antonio Scurati al Riviera International Film Festival

Al RIFF di Sestri Levante abbiamo incontrato Antonio Scurati, lo scrittore di M. Il figlio del secolo, che sta diventando una serie tv Sky interpretata da Luca Marinelli. Con l'autore abbiamo parlato dei rischi della trasposizione seriale, di cui ha visto un breve montato di 25 minuti, e su cui si dichiara molto fiducioso.

M. Il figlio del secolo: la nostra intervista esclusiva allo scrittore Antonio Scurati al Riviera International Film Festival

E’ davvero una bella manifestazione il Riviera International Film Festival, giunto quest’anno alla sua settima edizione. Non solo perché si trova in un posto spettacolare del golfo del Tigullio come Sestri Levante, con la sua splendida Baia del Silenzio, che si apre come una magnifica e naturale quinta teatrale tra le case, ma perché è un festival con un concorso riservato a registi under 35, e perché, sempre con un numeroso pubblico di appassionati, giovani e meno, si può interagire coi protagonisti di film e serie tv, presenti e venture, si ascolta buona musica e ci si scambiano opinioni coi colleghi sorseggiando un aperitivo in riva al mare. Capita dunque di poter assistere a presentazioni molto interessanti dei nuovi progetti mediatici e di poter dialogare con artisti del calibro di Antonio Scurati, lo scrittore ed accademico che ha creato quell’opera epica che è il romanzo-documento M. Il figlio del secolo, 3 volumi ponderosi e appassionanti (il quarto in arrivo) tradotti in 46 lingue e diventati ovunque best-seller, alla base di una bellissima trasposizione teatrale di Massimo Popolizio e della serie Sky attualmente in lavorazione con Luca Marinelli, che si è trasformato per entrare nei "panni" stempiati e massicci di Benito Mussolini e l’inglese Joe Wright alla regia. Prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, la serie è stata presentata al RIFF da Scurati e da Nils Hartmann di Sky, che hanno portato delle immagini inedite della serie e il concept del poster (non riproducibili) e hanno rivelato quel poco che si può, per ovvi motivi, tra cui il fatto, estremamente interessante, che la versione seriale avrà una colonna sonora “contaminata”, al cui interno si trovano ad esempio quei due autentici geni dell’elettronica che sono i Chemical Brothers. L’attesa è sicuramente spasmodica e Scurati, premio Strega per questa opera fondamentale, ha deciso, anche per tutelare il senso del suo lavoro, di partecipare alla sceneggiatura. E’ in questa veste che lo abbiamo incontrato, dopo il suo appassionante meeting col pubblico del RIFF, per un’intervista che aveva per forza di cose diversi paletti da rispettare per gli accordi di riservatezza che si firmano in questi casi, ma che si è rivelata molto bella e rivelatrice del processo creativo che sta dietro a ogni trasposizione e dei timori che lo accompagnano. Per questa opportunità ringraziamo di cuore innanzitutto Antonio Scurati, poi l’organizzazione del festival e l’instancabile ufficio stampa del RIFF, ManzoPiccirillo.

Dal momento che il romanzo è una forma di racconto più emotivamente forte, fruita individualmente, quale sono state le sue perplessità, se ci sono state, e come si è approcciato alla serialità che è una forma di intrattenimento più popolare?

"Sì, assolutamente, più che perplessità erano timori, timori che hanno guidato questa avventura di M. fin dalle origini, che avevo anche riguardo al romanzo che avrei scritto. Il metodo di scrittura che ho escogitato, che ho incontrato, quello che io chiamo romanzo documentario, con nessun dialogo fittizio, nessun personaggio inventato, nessuna emozione immaginata dall’autore, che sembrava una specie di percorso ad handicap o di menomazione, era dettato da una preoccupazione di tipo etico, di non trasformare questi personaggi in degli eroi tragici. Quindi quando poi arriva la serie e io decido di stare dentro, non fuori, ho quel timore sapendo che la propensione del cinema a generare quell’empatia nel pubblico è molto più forte, per sua natura, di quanto non sia quella del romanzo, che pure ha la sua forza. Decido di stare dentro e non fuori e continuo a essere accompagnato da una preoccupazione etico-estetica che accompagna il romanzo fin dal suo primo giorno. So che è quasi impossibile che il cinema non generi empatia, se non lo fa fallisce forse, e allora inizia un viaggio forse ancora più sofisticato, più articolato: tu sai che ci sarà empatia ma allora devi lavorare su quell’empatia per ottenere l’effetto etico ed estetico che vuoi. Fai entrare empaticamente lo spettatore, poi però lo raggeli. Questo credo sia il modo con cui ha lavorato Joe Wright ed è quello che lui mi annunciò fin dal principio, facendomi anche esempi di film che per lui erano di ispirazione, mi rassicurò e gli dissi “questa è la strada”, poi sta a lui riuscirci, ma ne ha tutte le capacità".

In questo rientra anche il discorso di Luca Marinelli scelto come protagonista, sui cui lei ha scherzato in conferenza stampa, che è un bravissimo attore ma è anche molto popolare. In questo caso il rischio aumenta? "Certo che aumenta. Marinelli è bravo, è molto popolare, è bello, non della bellezza più comune, piace al pubblico, piace ai critici, piace agli uomini e piace alle donne e questo aumenta il rischio dell’empatia, non ce lo nascondiamo, ma loro lo sanno molto bene. Luca Marinelli, con cui ho avuto sin qui, e spero che poi continuerà, un rapporto molto intenso, di confronto anche intellettuale, ne è pienamente consapevole e ha lavorato su questo". I suoi timori erano paragonabili a quelli per la serie Gomorra tratta dal libro di Saviano, cioè il pericolo che questi personaggi assurgessero a modello per i giovani? "Quello che posso dire è che Gomorra è stato al centro di controversie e polemiche ma anche di riflessione e dibattito, io stesso scrissi un saggio sul passaggio dal romanzo alla serie più che al film, che rappresenta uno dei più importanti film della nostra storia recente ma richiede un discorso a parte. Posso dire che almeno sul piano strutturale, della struttura del racconto, c’è più differenza tra la serie Gomorra e il romanzo non fiction di Roberto di quanto non ce ne sia tra M. serie e M. libro, laddove pure le differenze ci sono, perché nel dispositivo di racconto di M. libro non c’è l’elemento del filtro soggettivo, della voce dell’autore, del narratore, che commenta, che protesta. Giocoforza in Gomorra, sia nel film che soprattutto nella serie, questo salta, allora le differenze sono forti e diventa un’altra cosa".

Nel romanzo e nella messinscena teatrale convivono il grottesco e l’agghiacciante, e ovviamente è tutto frutto di documenti, pensa che al pubblico più giovane arrivi questo aspetto? "Sicuramente la componente documentale, di documento esibito nel romanzo, non può esserci nella serie, ma credo che si sia fatto lo sforzo di comunicare al pubblico che ovviamente c’è una messa in scena di tipo cinematografico, ci sono degli elementi di finzione maggiori di quanti non ce ne fossero nel romanzo, dove tendenzialmente non ce ne sono, ma che c’è una forte base di verità storica e di documentazione, che si deve sentire e si continuerà a sentire. Non nasconderò che una delle mie preoccupazioni è stata che quel tratto grottesco che è insito nella vicenda e anche nella mia narrazione potesse essere troppo accentuato, perché forse il principale equivoco storico, morale e anche politico che ha sempre gravato sul fascismo è di raccontarlo come una cosa buffa, che non ci fa capire niente, e Mussolini come un uomo ridicolo, che non era affatto, casomai è un uomo tragico. Buona parte del confronto in sede di scrittura con gli sceneggiatori a un certo punto verteva proprio su questo e attendiamo di vedere il risultato ma, come dicevo, a questo punto sono molto, molto fiducioso".

Lei ha citato nel suo intervento col pubblico C’era una volta in America e Il Padrino parte II. Dal momento che ha forti legami col cinema, c’è qualche altro titolo che ha come riferimento? "Io sono un appassionato di cinema, come penso sia inevitabile per un romanziere del Novecento che cammina nel XXI secolo. Insieme a Gianni Canova non a caso abbiamo un master alla IULM che si chiama “Letteratura, cinema e televisione” e chi vuole fare lo scrittore deve studiare cinema e serialità, e chi vuole fare lo sceneggiatore di serie deve studiare cinema e romanzo. Lo insegniamo sempre: per scrivere delle buone sceneggiature devi aver letto i romanzi migliori oggi più che mai e per scrivere dei buoni romanzi devi aver visto non solo i film, cosa che tutti ammettono ormai, ma le serie migliori. Per me uno dei capolavori letterari della nostra epoca è Il trono di spade e intendo la serie più che i libri di Martin. Vengo dall’ultima generazione che si è fatta un dovere di vedere tutta la Nouvelle Vague, per intenderci, però se dovessi dire il cinema che più amo, ho citato Coppola e Leone, potrei aggiungere ovviamente tutta la New Hollywood degli anni Settanta, ovvero Scorsese, Cimino, De Palma... quello è il mio cinema di riferimento. Ma anche Werner Herzog, che quando incontrai di persona l’anno scorso a margine di una rassegna letteraria mi suscitò una tale emozione, visto che era uno dei miti della mia giovinezza, che dissi l’unica cosa che non dovevo dirgli, lo sapevo benissimo, e lui mi fulminò, perché emozionato gli dissi “ma guardi, mi perdoni, per me stare con lei, che è uno dei più grandi artisti del Novecento...” e lui mi guardò e mi disse “artista? Non mi piace questa parola, io mi sono sempre pensato come un soldato”, cosa che ovviamente sapevo, e cosa vado a dirgli? Poi potrei citare anche dei film dei registi italiani. Mentre venivo qui in macchina ascoltavo Marina Cicogna alla radio, le hanno chiesto quale film avrebbe voluto produrre che rimpiange di non aver fatto e lei ha detto Il conformista: sicuramente quel Bertolucci è un modello altissimo con cui giocoforza, data la materia e l’argomento, ci si misura facendo questa serie, così come con quello di Novecento".

Un elemento di continuità anche oggi sembra essere quello della paura, che guida ancora la politica come un secolo fa. Perché non si è trovata una risposta diversa secondo lei? "Io credo che le politiche progressiste, l’apertura di orizzonti che le politiche di speranza richiedono e comportano siano cosa rara, è molto più difficile. Ci sono stati periodi nella nostra storia in cui per un allineamento favorevole dei pianeti, una congiuntura astrale, per due o tre decenni abbiamo vissuto nell’orizzonte della speranza. Non tanto noi quanto i nostri padri. Penso alla formidabile stagione della ricostruzione del dopoguerra e del boom economico che fra l’altro, parlando di cinema, è contrassegnata dalla grandezza inarrivabile del cinema italiano, che forse ci dice che il cinema è un’arte della speranza, e che è stata magnificamente rievocata di recente da Francesco Piccolo che ho citato stamani nel suo bellissimo libro “La bella confusione”. Poi oserei dire che già dagli anni Settanta prevale un orizzonte che si incupisce, di paura, plumbeo, con un breve intervallo negli sciagurati anni Ottanta/Novanta. Paradossalmente la paura è consolatoria, questo schema di gioco per cui si riduce la complessità della vita moderna che ci schiaccia, alla paura e al nemico che è lo straniero invasore, è consolatoria, rende tutto apparentemente e illusoriamente più semplice".

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  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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