Un paese quasi perfetto: recensione della commedia con Fabio Volo
Leggerezza e candore avvolgono il film di Massimo Gaudioso.
C’è un certo candore che avvolge il film di Gaudioso, il cui ultimo film da regista risale al 1999 ma come sceneggiatore non si è mai interrotto firmando o co-firmando commedie come Benvenuti al Sud, La scuola più bella del mondo e tutti i film di Matteo Garrone. Un paese quasi perfetto, a dispetto di quanto si possa pensare, schiva gli stereotipi sulle differenze culturali che hanno fatto la fortuna di altri film. Anzi, per quanto resti una commedia brillante, l’arma che sfodera non è quella della comicità, piuttosto quella della gentilezza.
Massimo Gaudioso mette in scena una commedia educata nella quale lo spaesamento generale è una virtù inconsapevole, perché rappresenta un momento di transito destinato a portare cambiamenti. Il film si inserisce in quell’ottica di ottimismo che considera il cambiamento come qualcosa di positivo, nonostante lo si tema. Un piccolo borgo di centoventi anime è in crisi d’identità, sta per scomparire dimenticato da una società che va a regime altrove. Serve un dottore in paese, per poter convincere un’azienda a reinvestire nelle risorse umane in cassa integrazione. Il lavoro significa sopravvivenza e, nella migliore delle ipotesi, nuova prosperità.
Un paese quasi perfetto rimarca lo spirito di gruppo di una comunità che gioca anche sporco se necessario, e lo è, per non soccombere. E buffo che il destino porti loro un medico ancor più spaesato dello stesso paesino. Non è un caso che sia un chirurgo plastico e che, per la legge del contrappasso, si ritrovi circondato da finzione, una messinscena di circostanze che appaiono come realmente non sono. È forse il ruolo più naturale mai recitato da Fabio Volo. Lo dice lo stesso attore, “sarei stato proprio io quel personaggio se non fossi diventato Fabio Volo”.
La discutibilità morale delle menzogne non è mai severa e non vuole esserlo. Non siamo dentro il Truman Show di Peter Weir. Il tono della commedia insegue la stessa leggerezza del film canadese La grande séduction del 2003 di cui è il remake ed è importante che il regista abbia mantenuto alcune situazioni come la passione per il cricket del dottore, evitando un banale adattamento con uno sport più conosciuto. Ciò che conta alla fine è quel certo candore che assume valore in soggettiva, a seconda di quanto riesca a essere contagioso.
- Giornalista cinematografico
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