Io, Lav Diaz e il ristorante vegano: cronaca di una serata (quasi) acritica
Riflessioni sparse a partire dalla visione (parziale) di The Woman Who Left
Il cinema è bello perché è vario. E il bello dei festival, di quelli fatti bene, è che questa varietà la vanno a rispecchiare e riprodurre nei loro programmi.
Capita, quindi, di imbattersi in film che si piazzano agli estremi dello spettro del cinema contemporaneo, che sfidano lo spettatore e la sua idea di cinema, provocandolo. Eh sì, perché anche i cinefili più illuminati e i critici più seri hanno le loro piccole o grandi idiosincrasie.
Perché, per quanto aperti si possa essere, con gli occhi e con la mente, tutti hanno una forma di cinema che - perché antipodica a quella preferita, o perché dissonante rispetto al sistema di pensiero - risulta respingente o indigesta. Al meglio, incomprensibile.
Così, accade che film come Spira Mirabilis o Piuma suscitino reazioni forti da parte di opposte fazioni. Accade che insospettabili appassionati e serissimi professionisti scelgano di abbandonare la sala e la visione nell'una o nell'altra occasione: perché il cinema (checché ne pensino alcuni) non dovrebbe mai diventare una fatica, uno sforzo tale da spegnere l'interesse, perfino quello intellettuale.
Tutti, anche i critici, dovrebbero godere del diritto di abbandonare o evitare una visione che non permette uno scambio fruttifero con la storia e l'autore.
Conosco colleghi che hanno problemi di questo tipo, barriere difficilmente superabili, con Michael Bay o con Ulrich Seidl, con Spira Mirabilis o con Piuma, con Sorrentino o con Mendoza. Sono questioni ideologiche, di forma mentis, di sensibilità personali.
Io i problemi li ho col cinema di Lav Diaz.
Attenzione però: questo non significa affatto che per me il filippino sia un regista di scarso valore; sono prontissimo, anzi, a riconoscerne i meriti e le qualità, che non sono poche. Ma, nonostante questo, esiste un serio problema di sintonia e di comprensione reciproca, per il quale ritengo giusto interrompere un dialogo che non porterebbe da nessuna parte.
The Woman Who Left, che Diaz ha presentato in concorso a Venezia non ha fatto eccezione. Il filippino gira come d'abitudine, dilatando le sue storie, inanellando inquadrature a camera fissa, lunghi silenzi, dialoghi più o meno estesi, raccontando le sue storie e i suoi personaggi con una forma che porta all'estremo qualsiasi concetto di naturalismo.
Nel fare quello che fa, "nel suo genere", Diaz è sicuramente un maestro: non si possono non riconoscere la bellezza di molte scelte formali, la precisione della costruzione narrativa. A piccole dosi, parti del cinema di Diaz sono addirittura balsamiche rispetto alle tante frenesie e nevrosi del cinema e del mondo che solitamente ci circondano.
Il problema, per quanto mi riguarda, è però che il disegno del filippino è quello realizzare film nei quali il tempo e i modi del cinema convergano e si incontrino all'infinito con quelli della vita, per mettere in discussione la concezione tradizionale di racconto cinematografico.
Se la posizione, anch'essa ideologica, di Diaz è del tutto legittima, questo si traduce, in termini pratici, in film dalla durata fiume (e questo, con i suoi 225 minuti, è per lui quasi un corto), che richiedono allo spettatore un'adesione e una sospensione che non tutti sono disposti a concedere.
Davanti a The Woman Who Left, di fronte, ad esempio, a scene molto belle come quella dell'incontro notturno tra due viados in difficoltà - splendida esteticamente e dotata del giusto pathos emotivo - ci si chiede se la scelta di dilatarne la durata ben oltre i tempi che sono considerati "normali" anche nel cinema più autoriale, ma di dare comunque un tempo definito, non sia in qualche modo una scelta di maniera.
Perché, ad esempio, nell'ambito di questa dilatazione, una scena deve durare 5 minuti, e non magari 3; o non al contrario 20. Perché, in questo tentativo di imitare i tempi e i modi della vita (con gli incontri casuali, gli scambi coi passanti, il procedere episodico e imprevedibile), The Woman Who Left non dura "sole" 3 ore, o non ne dura 8 come A Lullaby to the Sorrowful Mystery (in concorso a Berlino 2016) o addirittura di più?
E, data la durata decisa dal regista di questi suoi tranche de vie, perché lo spettatore - chiamato a calarsi in questi squarci di vita, nei quali non è la trama con il suo inizio e la sua fine, ad avere importanza, ma l'esperienza - non può autonomamente ritagliarsi la sua tranche de film, scegliendo quando e come entrare e uscire dal film?
Tutto questo, l'estetica e l'etica di Diaz e le loro conseguenze, fanno un po' a pugni con la mia idea di cinema, e con quello che chiedo a un film: e ho quindi scelto che la mia tranche de film non sarebbe coincisa con la durata complessiva di The Woman Who Left.
Lasciando la sala, per una volta in solitaria, invece che accompagnato dall'abituale fiumana di spettatori uscenti sui titoli di coda, non ho provato sensazioni revansciste nei confronti del film o del suo autore, non ero infastidito né indignato: covavo la sensazione che il mio fosse quasi un gesto politico; una rivendicazione che non a tutti andrà a genio, ma che - in qualche modo - sentivo importante dover fare.
Libero per una volta da impegni e da visioni nell'ora in cui le persone normali vanno a cena, e non costretto a pasteggiare quando in tanti vanno a dormire, ho visto la mia scelta premiata imbattendomi, per la prima volta da anni a questa parte, in un ristorante del Lido che non solo propone un menù diverso da quello praticamente standard di tutti i locali, ma dove - addirittura - io e il collega che me l'ha fatto scoprire siamo stati accolti con grande cortesia e - incredibile! - col sorriso.
Era un ristorante vegetariano e vegano.
Anche qui si tratta di scelte ideologiche. Che, in questo caso, sono stato più che disposto ad accettare, dialogando fruttuosamente con un dhal di lenticchie e melanzane con riso basmati e con una bottiglia di bianco biologico dei Colli Euganei.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival