The Artist - la recensione del film di Michel Hazanavicius
Quello che colpisce immediatamente, vedendolo, sono la straordinaria passione, la cultura cinematografica e la cura per il dettaglio che lo animano e gli hanno dato vita contro tutto e tutti.
Era dai tempi de L'ultima follia di Mel Brooks, se non andiamo errati, che il cinema muto non arrivava sul grande schermo. Ma se quel film – godibilissimo - si iscriveva di diritto nel registro parodistico e farsesco tipico dell'autore, The Artist sembra nascere da una vera e propria necessità. Quello che colpisce immediatamente, vedendolo, sono la straordinaria passione, la cultura cinematografica e la cura per il dettaglio che lo animano e gli hanno dato vita contro tutto e tutti. Basterebbe questo a farcelo amare: non c'è alcuna presunzione in quest'impresa, ma la volontà di rendere omaggio a un cinema venerato, che ha formato generazione di registi e spettatori, fatto da autori europei con capitali del nuovo mondo in quella che diventerà la culla e la mecca della settima arte, Hollywoodland (come ancora recitava il celebre cartello sulle colline di Los Angeles). Un luogo che diventa fin da subito fabbrica di sogni, emozioni, vite alternative, che crea stelle e mostri, capace di accogliere a braccia aperte gli artisti in fuga dall'Europa in fiamme, ma al tempo stesso di trattare i suoi divi a contratto come polli di allevamento. Un luogo pieno di luci e ombre, reso alla perfezione dalla formula - muto + bianco e nero - scelta da Hazanavicius.
L'idea vincente del film dunque non è quella di prendere una forma antiquata per far recitare gli attori in modo esagerato e giocare a fare il cinema muto, ma quella di mandare volti, corpi e paesaggi in un viaggio a ritroso nella macchina del tempo, di trasformarli col trucco, le scene e i costumi per poi inserirli nelle vere location della storia (Peppy vive nella casa che fu di Mary Pickford!) con i veri oggetti di scena e la musica sul set. Poi basta chiedere agli interpreti una recitazione il più naturale possibile, e il gioco è (quasi) fatto.
Dalla geniale idea di velocizzare leggermente le riprese a quella di sfumare il bianco e nero in una gamma infinita di grigi, a seconda dello stato d'animo del protagonista, The Artist è un film talmente pieno di brillanti intuizioni da essere forse, in certi momenti, anche “troppo” perfetto. Può essere questo l'unico difetto di una pellicola che riprende anche i generi del cinema classico hollywoodiano – non solo di quello muto - nella sua struttura narrativa: ecco il melò, la love-story, la caduta dopo l'irresistibile ascesa, il dramma, lo scintillante luccichio del musical. C'è davvero di tutto dentro The Artist: Quarto potere di Orson Wells (la scena della colazione, il magazzino coi mobili di George), Viale del tramonto di Billy Wilder (la parabola della star che non si rassegna, accompagnato dal fedele autista che firma anche gli autografi per lui e gli resta accanto nella disgrazia) e – anche se è il richiamo più ovvio e forse meno voluto – E' nata una stella di William Wellman e Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen. Ma ci sono anche Lubitsch, Murnau, i film di King Vidor, i numeri di tip tap di una grande coppia danzante come Fred Astaire e Eleanor Powell.
E il protagonista, col fedele cagnolino che lo accompagna sempre, è un incrocio tra William Powell, il John Gilbert messo in crisi dal sonoro, Douglas Fairbanks ed Errol Flynn: bello di una bellezza in apparenza inscalfibile dalla vita, il volto trasfigurato da un eterno, sfavillante sorriso, sempre pronto a giocare coi fan. Una star talmente convinta della propria invincibilità da rifiutarsi di cambiare, un uomo che preferisce assaporare fino in fondo la propria caduta in disgrazia invece di rimboccarsi le maniche, o di accettare l'amore disinteressato di una ragazza più giovane. A dargli corpo, fascino, sguardo, è un incredibile attore chiamato Jean Dujardin, che ha iniziato la propria carriera facendo il buffone nei vari Zelig d'oltralpe, e che dimostra qui un'espressività e un carisma assolutamente all'altezza dei suoi modelli. Lo affianca la moglie del regista, Bérénice Béjo, bellissima e vivace “maschietta”, che sembra uscita da uno dei racconti più scintillanti di Francis Scott Fitzgerald. E sono perfetti anche gli attori “secondari”, da John Goodman a James Cromwell. A tutto questo Hazanavicius aggiunge le belle musiche di Ludovic Bource e un concetto di regia davvero moderno: senza spoilerare niente, diremo che il film non è interamente muto, e l'uso che il regista fa del sonoro è – ancora una volta – di un'intelligenza non comune. Come i grandi film che Hollywood non sa più darci, con il loro carico di emozione pura e glamour assoluto, The Artist compie il suo miracolo lasciando lo spettatore contento e stupito, con la voglia, probabilmente, di rivederlo ancora una volta. In mancanza della voce lo sguardo torna protagonista e il cinema, “che è diventato piccolo” come diceva Gloria Swanson, riacquista le sue giuste dimensioni.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità