Suburbicon: la recensione del film di George Clooney presentato in concorso al Festival di Venezia 2017

02 settembre 2017
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L'americano ha ripreso e rivisto un copione dei Coen, e il risultato è una commedia nera che mette sotto accusa l'America di Trump.

Suburbicon: la recensione del film di George Clooney presentato in concorso al Festival di Venezia 2017

I maligni sostengono che le nozze con Amal Alamuddin e la nascita dei gemelli siano parte di un percorso di avvicinamento di George Clooney a una carriera politica che ha come obiettivo nientepopodimeno che la Presidenza degli Stati Uniti. Gli stessi maligni vedono nelle scelte di carriera dell'attore e regista americano esattamente la stessa cosa: e, perlomeno da questo punto di vista, quello professionale, sembra difficile dar loro torto.
D'altronde, non è che Clooney nasconda dietro una quinta quel che è evidente a tutti: ovvero che questo suo Suburbicon, nato da un vecchio copione dei fratelli Coen che lui stesso ha riscritto con Grant Heslov, per renderlo più cupo e contemporaneo, sia una commedia nera nerissima che prende pesantemente di mira la realtà sociale e politica dell'America di Trump, pur essendo ambientata nel 1959.

Basterebbe il canovaccio farlo capire: in un distretto residenziale di quelli dove tutto sembra bello e perfetto, i prati sono verdi, le bandiere sventolano, i mariti lavorano per tornare a casa dove mogliettine impeccabili li attendono con un drink e una cenetta sana, l'ipocrisia sociale di frantuma di fronte all'arrivo nella comunità di una nuova famiglia, che ha commesso l'imperdonabile errore di nascere con la pelle nera.
E, mentre i compassati borghesi svestono completi e cravatte per rivelarsi i rozzi, ignoranti e razzisti bifolchi che sono sempre stati, assediando la casa dei nuovi arrivati, nella villetta a fianco si consuma - ignorato da tutti - un massacro familiare coeniano tutto bianco, tutto wasp, tutto dettato da egoismi e avidità.

Come e perché la storia di Suburbicon riecheggi inquietante la situazione socio-politica americana attuale, non c'è nemmeno bisogno di starlo a spiegare; e va da sé che da questo punto di vista l'operazione di Clooney è decisamente meritoria, che gli serva da trampolino elettorale o meno.
Così come è interessante, sebbene un po' naif, che ad assistere alle follie raccontate nel film, e suo vero protagonista, sia un bambino: che non impara però da tutto questo l'odio, quanto invece la tolleranza e l'accoglienza.
Di fronte alla turpitudine della folla, e della sua stessa famiglia, il piccolo Nicky imparerà la lezione più importante dal coetaneo nero dal quale è spedito dalla mamma all'inizio del film per giocarci a baseball assieme: la lezione della resilienza. Mai mostrarsi spaventati, mai fare passi indietro, non reagire ma andare avanti, forti dei propri valori.

Che poi tutto questo Clooney lo racconti divertendosi e divertendo, ma con uno stile volutamente lineare, ma che è comunque troppo debitore di quello dei Coen - in particolare dei Coen prima maniera - e con una mano registica non sempre lucidissima, e che spesso ricorda di più quella di Monuments Men o In amore niente regole, che non quella di Good Night, and Good Luck o dell Idi di marzo, in fondo importa un po' poco.
Perché, e l'abbiamo già stabilito, in fondo oramai per Clooney viene prima la politica, e solo dopo il cinema. Ci piaccia o meno.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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