Spider-Man: Far From Home, la fiera delle illusioni: la recensione del nuovo cinecomic Marvel
L'Uomo Ragno è sempre il più simpatico e leggero di tutti i supereroi, in un film che flirta molto con la commedia ma riflette anche sullo stato del mondo e - forse - pure del cinema.
Povera Venezia. Se non sono le grandi navi, a gettare scompiglio e distruzione tra calli e canali, buttando giù addirittura il ponte di Rialto, arrivano gli Elementali, spaventose creature provenienti da un’altra dimensione, e che proprio lì in quell’altra dimensione han già fatto fuori la versione locale del pianeta Terra.
Qualcuno in casa Marvel ha infatti pensato bene di traghettare in Europa la furia iconoclasta di Hollywood: e se nel precedente capitolo lo Spider-Man di Tom Holland salvava il Monumento a Washington, qui deve limitare come può i danni nella città lagunare prima, e a Praga, Berlino e Londra poi; facendo pure tappa nella gentilissima Olanda. Perché Peter Parker è in gita scolastica in Europa (l’Europa più retorica e cartolinesca vista al cinema da molto tempo a questa parte, perfetta riproduzione dell’immaginario dell’America di Trump sul Vecchio continente), ma i guai sembrano seguirlo ovunque, e forse non per caso.
Lo schema è sempre lo stesso, le variazioni rispetto al modulo cinecomic standard sono minime: un prologo, una intro leggera, il complicarsi delle cose e una prima battaglia, e via con la ripetizione con un crescendo di complicazioni e della scala degli scontri, fino al finalissimo con i codini post-titoli di coda.
Da quando i supereroi hanno iniziato a fare apparizioni regolari al cinema, le cose sono cambiate. Non è più il tempo dei Tim Burton, dei Sam Raimi, degli Ang Lee, di registi capaci di imprimere un marchio sul prodotto, e sarebbe ingiusto pensare che Jon Watts non vi riesca per suo puro demerito: la macchina è troppo grande e complessa, e quello del regista, in film così, è un nome come un altro. Vale, per dire, tanto quanto quello degli sceneggiatori, che qui sono Chris McKenna e Erik Sommers, gente che viene dalla commedia (tra i loro credits, per dire, anche il Jumanji con The Rock) e si vede. Per fortuna.
Perché Spider-Man è sempre il più simpatico dei supereroi Marvel, quello che l’ironia e il prendersi poco sul serio ce l’ha nel DNA da sempre, e non solo da qualche anno, in maniera spesso un po' insincera, come altri Avengers. Perché qui Peter Parker è un liceale, e il tentativo (un po’ goffo, e un po’ rigido) di far emergere qualche dinamica alla John Hughes c’è, e si vede.
Fosse stato ulteriormente alleggerito nelle sequenze più baroccamente spettacolari, rispetto agli altri film della Fase Tre, se qualche battaglia fosse durata un po’ di meno, la commedia di Spider-Man: Far From Home sarebbe stata ancora più evidente, e sarebbe stato un bene. Ma augurarselo è tanto utopico quanto inutile.
Utile, invece, fare tesoro dei momenti divertenti, che non mancano, così come dei sempiterni dilemmi, non solo sentimentali, di Peter Parker: uno che è una vita che al cinema - qualsiasi volto abbia avuto - deve vedersela tra la voglia di essere il ragazzino che è e l’assumersi le responsabilità arrivate coi suoi poteri. Anche perché qui la responsabilità è ancora più grande, col giovane Peter che deve sostanzialmente decidere se accettare o meno lo scettro di erede di Tony Stark.
E però sotto a tutto questo, o forse dietro, c’è dell’altro. Perché la trama di Far From Home, e i personaggi con cui Spider-Man si trova ad avere a che fare, questa volta sembrano tirare in ballo - con la limpida ingenuità e il sincero entusiasmo che lo permeano in tutti i suoi risvolti, e che sono guarda caso tipici dell’adolescenza dei suoi protagonisti e del suo target primario - questioni tutt’altro che secondarie rispetto ai tempi che viviamo e, forse inconsciamente, rispetto proprio ai cinecomic della Hollywood contemporanea.
Perché il villain di questo film è, alla fine dei conti, l’equivalente cine-fumettaro di un politico populista. Uno che vuole arrivare al potere fingendo di fare il bene della gente, proteggendola da nemici che sono del tutto inventati, quando non inesistenti. Perché questo, è un mondo che “ha bisogno di eroi” e c’è chi è pronto a diventarlo a ogni costo, anche proiettando lo spettro di terribili e distruttive minacce da cui è pronto a liberarci con teatrale furbizia.
Perché quello che Spider-Man: Far From Home racconta, con la sua storia e anche con una bella sequenza quasi visionaria - che, questa sì, possiamo intestare tutta a Watts - di come la complessità del nostro mondo ci abbia reso sempre più difficile distinguere la realtà dall’illusione, il vero dal falso, il concreto dal virtuale. Se volete, anche l’analogico dal digitale.
E allora, forse, nel suo appello a fare i conti con l'illusorietà di certe minacce e di certe battaglie, di certe magniloquenti creazioni digitali e spettacolari, con un mondo che ha sete di eroi (e uomini forti), chissà che Spider-Man: Far From Home non stia riflettendo in maniera auto-critica proprio sul modello spettacolare che Hollywood e in particolare proprio la Marvel stanno imponendo con enorme successo al pubblico di tutto il mondo.
Chissà. Forse sì, forse no.
Che però il dubbio nasca nel film che racconta del supereroe dal senso di ragno, quello che ha questo speciale sesto senso che lo aiuta a prevedere le cose e di vederle come stanno, e che tutto sommato si accontenterebbe volentieri di essere l’amichevole Uomo Ragno di quartiere, invece che il nuovo leader degli Avengers, beh: questo però non è di certo un caso.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival