LA TRAMA DI SOGNARE È VIVERE
Scritto, prodotto, diretto e interpretato da
Natalie Portman,
Sognare è vivere segna il debutto alla regia di un lungometraggio per il grande schermo dell'attrice israeliana. Tratto dal romanzo autobiografico di Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, che è anche l'opera più ambiziosa dell'autore, racconta l'infanzia dello scrittore a Gerusalemme negli anni che precedono la nascita dello Stato di Israele. Come molte altre famiglie ebree tra gli anni trenta e quaranta del '900, anche quella del
piccolo Amos (
Amir Tessler) é sfuggita alle persecuzioni trovando rifugio in Palestina, insieme con la speranza di un futuro migliore. Scampati alla guerra, i genitori di Amos non sono però immuni alla sofferenza che questa si porta dietro: ne è colpita la madre
Fania (
Portman), poetica e sognatrice, la cui indole fantasiosa viene a poco a poco soffocata dalla vita matrimoniale e dalla monotonia quotidiana, fino a scivolare nella solitudine e nella depressione. La donna riconosce un compagno di giochi e un complice intellettuale nel figlio Amos, per il quale inventa storie di avventure e viaggi nel deserto, e con il quale condivide la sua puerile visione del mondo. Da lei Oz riprende quel gusto per la lingua e il lieve tocco ironico che da adulto influenzerà la sua scrittura. Sognare è vivere, come il romanzo al quale è ispirato, è una dichiarazione d'amore per un Paese, una lingua, un popolo, una madre.
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RECENSIONE
Il passaggio di un attore dall’altro lato della macchina da presa è sempre, potenzialmente, critico: perché se il campo da gioco è lo stesso, i ruoli non sono sempre intercambiabili. Lo conferma, ahilei, Natalie Portman, che si è lanciata nella regia con Sognare è vivere, adattamento del romanzo biografico di Amos Oz “Una storia di amore e di tenebra”.
Se il legame dell’attrice col libro - cronaca familiare che s’intreccia con quella della nascita d’Israele - è chiaro e sincero, altrettanto chiaro è che questo è uno di quei film troppo voluti e covati (otto anni ci ha messo l’attrice per chiudere il copione), troppo carichi di ansie e di voglia di dimostrare qualcosa per riuscire bene. Il risultato è fastidiosamente manierista, con cupezza e pesantezza ostentate, sequenze quasi oniriche sbagliate, l’incapacità di tenere assieme i tanti piani del racconto e di cogliere l’ironia amara del testo.
La Portman si concentra sulla storia di una donna e di una madre, e quindi su di sé: tutto il resto è sfocato, trascurato, eccessivo. (federico gironi)
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