Sirat, la recensione del film in concorso al Festival di Cannes 2025
Una ragazza scomparsa, rave nel deserto del Marocco, un viaggio da incubo che vorrebbe ammiccare alla mistica religiosa ma che arriva da tutte altre parti. La recensione di Sirat di Oliver Laxe.
Una ragazza scomparsa, e padre e fratellino che la cercano. La scena dei rave illegali e la musica techno. Il deserto del Marocco e i monti dell’Atlante. Il Super16 come scelta estetica. Con l’esclusione di Sergi Lopez, un cast di non professionisti realmente appartenenti alla rave culture.
Non è che Oliver Laxe - origini galiziane, nato in Francia, passaporto spagnolo, convertito all’Islam e attratto dal sufismo - fosse partito da premesse poco interessanti, per il suo nuovo Sirat, che ha definito il suo più politico e radicale: dispiace però constatare che il soufflé di Laxe si affloscia miseramente sotto il peso delle sue ambizioni e di una certa quale arroganza.
Che si siano dei problemi ce ne accorgiamo abbastanza in fretta, quando all’inizio del film Laxe riprende per un quarto d’ora abbondante l’allestimento di un rave nel deserto e la folla che balla in trance: perché a colpire, purtroppo, è come Sirat sia poco capace di catturare, e di trasmettere, quell’energia che si ostina a ostentare nelle sue immagini. Quando poi arriva in scena Sergi Lopez, padre in cerca della figlia scomparsa, qualcosa di scarsamente elettrico riguarda anche la sua ansia, e la sua disperazione di genitore. Va a finire comunque che a un certo punto arriva l’esercito, la festa viene smantellata, e il personaggio di Lopez segue i due camion vagamente post-apocalittici di cinque raver che aveva conosciuto, e che sono diretti a un altro party del deserto dove, gli avevano detto, avrebbe chissà potuto esserci anche sua figlia. Ed è qui che le cose si complicano, in tutti i sensi.
Sirat - ci spiega una didascalia che apre il film - è il termine che indica quella strada rischiosissima che, nella cultura religiosa islamica, conduce i morti al paradiso passando sopra l’inferno, e dalla quale è facilissimo cadere. Ovvio quindi che il viaggio dei protagonisti di questo film attraverso il deserto - verso una figlia scomparsa, verso un rave da sogno, verso la trascendenza, verso una vita migliore - assume chiari e ingombranti significati metaforico-mistici, che Laxe mette sullo schermo con un occhio sicuramente notevole e attento a inquadrature e panorami, ma che affastella situazioni narrative che, più che sorprendere come dovrebbero, lasciano interdetti.
Tra guadi, passi montani, incidenti meccanici, postazioni abbandonate, stati di alterazione, perfino campi minati (più sirat di così…) il film di Laxe sembra mettere assieme suggestioni, più che misticheggianti, vanno dalla Parigi-Dakar a Mad Max, dal Salario della paura a Monolith, con una leggerissima spruzzata dell'ideologia di Final Destination: altro che Herzog. Lentamente - spesso, in più di un senso - e facendosi beffe delle premesse, Sirat mette totalmente da parte la vicenda della ragazza scomparsa per tramutarsi in una sorta di dieci piccoli indiani raver nel deserto, in una lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile che, per Laxe, è metaforone (anche) del nostro presente. Il tutto però in maniera talmente insensata che gli sceneggiatori di Boris e il loro “de botto senza senso”, in confronto, erano William Goldman.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival