Revenant: recensione del film di Alejandro Inárritu con Leonardo DiCaprio
Sfida alla natura ed esperienze umane estreme, raccontate con lo stile virtuosistico tipico del messicano.
Due premesse sono doverose. Due ammissioni.
La prima è la mia scarsa, scarsissima predisposizione per il cinema di Alejandro González Iñárritu, che fin da Amores Perros ho trovato troppo compiaciuto e narcisista.
La seconda, per contro, è il mio dente dolce per tutti quei film e quelle storie che vedono protagonista il Grande Nord, la natura incontaminata, la lotta dell’uomo contro la stessa, le condizioni climatiche estreme.
Revenant - Redivivo è proprio questo: la storia di un uomo in lotta con la Natura, e la natura umana, in condizioni estreme e in lotta contro l’estremo. E quindi, come la mettiamo?
Nella sua prima ora, scarsa, Revenant sembra quasi proporsi come il miglior film del regista fino a questo momento: libero dalle furberie e dagli schemi delle sceneggiature a incastri, ma anche dagli angusti corridoi del teatro fisico ed esistenziale di Birdman, Iñárritu sembra trovare negli spazi sterminati del Canada il posto giusto per sfogare i suoi virtuosismi visivi (tutto il film è costruito sull’alternanza di piccoli e lunghi piani sequenza), senza che questi risultino soffocanti o stucchevoli.
Detta in altre parole, lassù il messicano ha finalmente trovato qualcosa di più grande del suo ego: la grandiosa magnificenza della Natura. Lo riconosce, ma non ne risulta affatto intimorito, e non rinuncia comunque a giocare a chi ce l'ha più lungo anche con lei.
Ecco che però ti accorgi, al termine di questa prima ora densa e articolata, che la storia del film è appena all’inizio: perché Iñárritu, è chiaro, vuole lavorarti ai fianchi. Ti vuole spossare, ti vuole estenuare. Ti vuole far patire il cammino così come lo patisce - con un bel po’ di fatica fisica in più - lo Hugh Glass di un Leonardo DiCaprio che grugnisce e si trascina, sbava e zoppica, urla e si stravolge senza sosta: spinto dal miraggio dell’Oscar, certo, e da un copione che vede in ogni sua nuova traversia l’occasione giusta per un tocco di virtuosismo (cade da un burrone col suo cavallo, ad esempio) e l’occasione per mettere in scena crudezze primordiali (l’oramai proverbiale fegato di bisonte addentato senza cottura né impiattamento).
Sottoporre lo spettatore a tour de force è lecito, forse giusto in casi come questo; e non è in fondo difficile. Il difficile - e qui casca il bisonte - è trovare il modo: far sì che questo tour de force sia legittimato, giustificato e reso accettabile e da chi guarda. Che sia condiviso.
Che, semplificando, non sia solo frutto dell’ipertrofia di un racconto, della logorrea o della megalomania di un autore.
Nel caso di Revenant la giustificazione narrativa, da sola, non basta: scarnificato all’essenziale nel contenuto, ma ancora barocco nella forma, il percorso di DiCaprio non riesce ad assumere alcuna valenza mitica, e a trascinare con sé chi guarda giù nella neve, nel fango e nel sangue assieme a lui per condurlo anche nella sua mente. A fargli provare empatia per la sua lotta per la vita e per la vendetta.
Il fatto è che la scelta di Iñárritu, come sempre, è una scelta di forma, e di superficie. La sua è una fede esasperata ed esasperante non solo nelle sue notevoli capacità tecniche, ma a livello più profondo nell’immagine stessa.
In Revenant, come in altri film del messicano, ma più che in altri film del messicano, l’immagine si autosostiene e si giustifica da sé: il suo cinema non è racconto per immagini ma immagini per racconto. Non c'è quindi epica, non c'è mistica, non c'è filosofia, non c'è Storia (nemmeno quella del cinema): c’è solo solennità. C'è solo il presente eterno dell'inquadratura, del momento incorniciato fotograficamente che esaurisce lo spazio e il tempo, e non ne contempla altri; né contempla altrove che non siano quelli esplorati dai piccoli e grandi piano sequenza.
Si tratta di scelte ideologiche, legittime, e perfino apprezzabili, per qualcuno. Sono scelte che potrebbero avere senso, essendo Revenant una storia brutale e ancestrale di lotta per la sopravvivenza: ma i limiti di questo approccio emergono (e anzi si esaltano) anche nel caso dei discutibili intervalli onirici, dei sogni di Hugh. Perché per Iñárritu, anche lì, è solo questione d'immagine. Inutile, allora, tirare in ballo confronti che potrebbero esser sembrati inevitabili con autori come Herzog o Malick, perché il messicano è tutto materia, seppur fotografica. Fisico sempre, metafisico mai.
Rimangono allora, di Revenant, episodi, momenti, movimenti di macchina. Subitanei flash, a volte potenti, sebbene non evocativi. Rimane un lavoro fotografico notevolissimo, capace di ritrarre al meglio la grandiosa magnificenza della natura.
Alla lunga, però, in un viaggio così lungo ed estenuante, anche la magnificenza della Natura stanca. E quel che rimane davvero, spogliato Revenant di tutto, è la sensazione di aver visto un western del National Geographic.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival