Quo Vado?, la recensione del film di Checco Zalone e Gennaro Nunziante

30 dicembre 2015
3.5 di 5
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Il comico pugliese diverte, con una fotografia di quello che siamo e quello che possiamo essere.

Quo Vado?, la recensione del film di Checco Zalone e Gennaro Nunziante

C'è qualcosa, nell'incipit africano di Quo Vado?, che più che a Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? mi ha fatto pensare a Io sto con gli ippopotami. Una sensazione epidermica e fugace, che non ha niente a che vedere col racconto e il suo contenuto: semmai dettata da una certa qualità fotografica, o dalla regia elementare. Più ci penso, però, più mi pare significativo aver associato un film di Checco Zalone (e Gennaro Nunziante) a quelli di Bud Spencer e Terence Hill che non ai più abusati, e a sproposito citati, modelli della commedia all'italiana dei grandi nomi.

A dispetto della scala produttiva che ha portato Checco dalla Puglia al Grande Nord, e poi in Africa, Quo Vado? conferma infatti uno stile elementare e una comicità semplice ed efficace, che mirano volutamente in basso per colpire eventualmente un po' più in alto, ma prima di tutto nel segno; che sono di grande accessibilità, vagamente infantili (Checco è sempre un bambinone, in fondo) e favolistici. Che, insomma, si differenziano nettamente dalla cinica consapevolezza dei vari Sonego e Monicelli, e rielaborano piuttosto in maniera personale la vasta eredità dell'immaginario e del linguaggio televisivo degli ultimi trent'anni. Nella loro superficie e nella grammatica di base, Zalone e Nunziante sono più vicini  a essere gli Spencer & Hill del Terzo Millennio. Ma dei Bud e Terence con le smorfie, le battute e le canzoni irresistibili al posto degli sganassoni; che hanno maturato una consapevolezza sociale e parlano in maniera esplicita e partecipe del proprio tempo e del loro paese.

Privo di sovrastrutture spesso inutili, candido ma non ingenuo, leggero, magari demenziale ma non cretino, Zalone lavora con spirito fotografico nel catturare, ritrarre e riprodurre l'italiano dei nostri giorni, i suoi tanti vizi e le sue poche virtù. Lo sfotte, lo prende in giro, certo: ma non lo mette alla berlina con crudele senso di superiorità, non lo blandisce paternalisticamente, non lo lusinga – come troppa commedia degli ultimi decenni – mostrando i suoi difetti come fossero dei pregi.
No. Senza mai dimenticare l'esigenza di un divertimento che deve essere popolare e trasversale, in Quo Vado? Zalone racconta, con innata istintività e la giusta dose di smaliziata furbizia, come siamo: un po' tronfi e un po' patetici, figli di una cultura  e di un mondo che ci hanno viziato e che sono svaniti sotto il nostro naso, alle prese con le ambasce dell'adeguamento ma sufficientemente resilienti per tirare avanti e cavare comunque il meglio dalle situazioni. Perfino capaci di imparare, parola quasi scandalosa nella commedia popolare italiana di oggi, e di migliorare: senza snaturarsi mai troppo, ben inteso.
Caustico, magari, ma con affondi che arrivano con tanta nonchalance e rapidità, sommersi da un bombardamento para-televisivo di situazioni e battute, da non bruciare mai troppo (a lungo). Caustico, magari, ma mai cinico: non perché Zalone sia buono, o naïf, ma perché ha un relativo garbo e un'educazione (parola che ricorre a più riprese, in Quo Vado?) sconosciuti a buona parte dei suoi contemporanei.

Il paradosso di Zalone, che racconta delle verità innegabili sull'essere italiani in Italia e all'estero, che gioca con evidenze talmente evidenti da scavallare ogni rischio di stereotipizzazione, è allora quello di essere un comico talmente tanto dentro il suo tempo e il suo presente, capace di rispecchiarlo raccontarlo così bene, da epurarlo da ciò che lo corrompe. Mentre, in maniera tanto progressiva quanto inesorabile, la commedia popolare italiana dell'era berlusconiana (quella televisiva prima e quella politica poi) ha celebrato più o meno esplicitamente la perdita di ogni forma di stile, la furbizia e l'opportunismo, la prevaricazione e la volgarità, soprattutto l'arroganza, nel nome di una comicità che voleva catturare lo spirito del tempo e legittimarlo, Zalone e Nunziante le hanno espulse come tossine, andando alle radici antropologiche del problema e proponendo implicitamente una soluzione altrettanto antropologica. Non si tratta di moralismo, ma dello sguardo da enfant (terrible, ma pur sempre enfant) di Zalone.

L'uomo zaloniano, messo a confronto con orizzonti più ampi di quelli del suo ufficetto di provincia, è capace di allargare le proprie vedute, di accettare famiglie allargate, di abbandonare retoriche maschiliste, perfino di imparare a non saltare le code o non suonare il clacson al semaforo. Certo, basta colpirlo nel profondo del suo essere, basta che veda Al Bano e Romina nuovamente assieme sul palco di Sanremo, per rischiare di perdere tutto questo e tornare sui suoi passi; ma qualcosa dentro di lui è cambiato per sempre, anche se qualcosa rimarrà per sempre uguale. Ha subito un mutamento antropologico: qualcosa di ben più profondo della superficialità della sociologia facilona dei Vanzina e dei cinepanettoni.
È grazie a questo mutamento che Quo Vado? si può permettere un finale che apre una speranza per il futuro. Quella speranza figlia di un rinnovamento che non ha nulla a che vedere con la rottamazione o con 80 euro in più in busta paga, o qualche migliaia di arrotondamento al TFR. Se lo può permettere e senza odorare di buonismo veltroniano, ma chiudendo la sua parabola con dei toni favolistici e infantili, con un lieto fine in linea con un tono generale che è quello dei film di Bud Spencer e Terence Hill: con le smorfie, le battute e le canzoni irresistibili al posto degli sganassoni. E con tanta consapevolezza in più.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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