Queer: recensione del film di Luca Guadagnino con Daniel Craig in concorso a Venezia

03 settembre 2024
3.5 di 5

Un libro scandalo trova nuova vita in un adattamento per il cinema di Luca Guadagnino con protagonista Daniel Craig, presentato in concorso Venezia. La recensione di Mauro Donzelli del percorso di avvicinamento di due anime sole in amore vissuto con desiderio e libertà senza condizionamenti.

Queer: recensione del film di Luca Guadagnino con Daniel Craig in concorso a Venezia

In cerca di una droga ha trovato un amore. Potrebbe essere questa in brutale sintesi la sinossi di un romanzo breve fra i più discussi della beat generation. Queer, in originale e ora anche in Italia, dove si è intitolato in passato Diverso, poi Checca, era troppo scandaloso per i primi anni ’50, quando venne scritto da William Burroughs, con evidenti riferimenti autobiografici come tutta la sua produzione, tanto che fu pubblicato dopo trent’anni dopo. Un testo ritenuto a dir poco difficile da adattare per il cinema, sfida accettata ora però da Luca Guadagnino, che dopo averlo letto da adolescente se ne innamorò.

Siamo a Città del Messico nei primi anni ’50, dove William Lee vive in solitudine i suoi quarant’anni da espatriato americano. Frequenta qualche locale e un piccolo gruppo della comunità americana. Sono pochi, si conoscono tutti e l’arrivo di qualcuno di nuovo è subito notato, come accade quando si palesa un giovane e affascinante, Eugene Allerton. “Qualche volta penso che non gli piacciamo”, si dice a un certo punto nel film, pensiero ad alta voce che sottolinea il senso di spaesamento di chi si trova in un altrove, in una pausa sospesa in cerca di qualcosa, da cui probabilmente presto ripartirà verso un’altra vita.

Lo si vede spesso insieme a una donna, sarà gay o no? L’iniziale curiosità di William si propaga fra gli americani e per lui diventa una ossessione, la ricerca di una connessione, finalmente, guidato da un desiderio sempre più intenso e irrefrenabile. Siamo lontani da una ricostruzione polverosa da film in costume, ma dalle parti di una fedeltà ideale, il tentativo di recuperare quell’immaginario elettrico, impertinente ma anche malinconico delle pagine di Burroughs e del suo universo. Non solo attraverso Queer. Lo incontriamo sempre in pausa da una lettura al bar, di un giornale o un libro, quando porta un amante in casa la scrivania è popolata di saggi, scritti e una macchina da scrivere ancora calda.

Sono locali e strade popolate da pochi personaggi, come fossero proiezioni oniriche del protagonista, evitando comparse e comprimari si concentra solo su quei corpi persi nella città, monadi solitarie in cerca di altro, con il peso di un passato spesso sotto le armi e in guerra. La ricerca di un’alterazione, cavalcando una proiezione nell'altrove consentita da alcol, droghe e desiderio. Sono corpi che cercano una forma di comunicazione, in ebollizione fra liquidi e flussi corporei, sudore, sperma e vomito, nelle giornate scandite dal caffè al mattino e l’ultimo mezcal a notte fonda. Un sesso giocoso e liberatorio che risolleva lo spirito, ma per William ha un portato assoluto, è una passione senza compromessi.

Guadagnino doma la labirintica dimensione di Queer, la sovraccarica di pulsioni sensoriali, la sistematizza prendendo spunto da tutta la produzione di William Burroughs, per regalare una dimensione di personaggio a tutto tondo a William Lee. Non solo, si assume la responsabilità di proiettare una fine su un’opera incompiuta, aprendo una porta “da cui non puoi tornare indietro, al massimo guardare da un’altra parte”, come viene detto a Eugene mentre con William si avventura nella foresta in cerca del sapere su una droga rivoluzionaria, la yage. Una liana da cui si estraeva una sostanza con pretese proprietà nel controllare la mente altrui.

Se non fosse una storia di smarrimento consapevole, di tuffo senza guardarsi indietro, verrebbe da dire che in quella foresta un po’ ci si perde e ci si dilunga, mentre Queer mantiene picareschi i suoi incontri e labirintica la mente di William, senza indurre in allucinazioni troppo sbrigative. La sua mente la vediamo viaggiare, resa magistralmente da un Daniel Craig al suo massimo, anche (se non soprattutto) nel trasmettere la timidezza, il disagio soffocato in un sorriso o una risatina, nel muoversi negli spazi della città e nel comunicare con gli altri.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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