Priscilla: recensione del biopic di Sofia Coppola presentato in concorso al Festival di Venezia 2023
Un altro biopic in concorso al Festival di Venezia, Priscilla, in cui Sofia Coppola racconta il matrimonio fra Elvis e Priscilla Presley. Protagonisti Cailee Spaeny e Jacob Elordi. La recensione di Mauro Donzelli.
Il cinema è ciclico, specie dall’altra parte dell’Atlantico, influenzato magari da anniversari o evoluzioni sociali condivise. E allora prendiamo atto di una nuova esplosione dei biopic, in particolare con Elvis Presley in primo piano. Difficile non pensare al film di Luhrmann, così esplosivo e grondante musica del mitico cantante, guardando Priscilla, che non ha avuto accesso alla sterminata library. Si perde in esplosività, insomma, inseguendo l’intimità del racconto da un punto di vista diverso, quello della protagonista stessa, che scrisse le sue memorie quasi quarant’anni fa. Per qualche motivo solo oggi Sofia Coppola dice di essere stata colpita dal libro, e ne ha tratto un adattamento chiaramente diviso in due parti principali: la prima, quella del corteggiamento e dell’amore più o meno segreto e instabile e quella della clausura a Graceland.
Si conoscono a una festa, Elvis, già superstar del rock, e Priscilla, adolescente. È questo il momento più coinvolgente della storia, con l’intimità che rivela un rapporto inconsueto e particolare, sicuramente lontano rispetto alla proiezione pubblica del cantante. Un sentimento sincero che esplode mentre la giovanissima ne subisce il fascino, spinta da una famiglia assai partecipe, e Elvis trova in lei una spalla amica, capace di alleviare la profonda solitudine della star. Il corteggiamento è lungo, problematico e raccontato con un certo brio dalla Coppola, a partire da una base dell’esercito tedesco per lasciare spazio poi alla normalizzazione del legame, che diventa ufficiale e pubblico, e si rinchiude nelle stanze sontuose di Graceland.
Un passaggio non senza conseguenze, che il film non supera indenne, perdendo respiro, soffocando il racconto, rischiando di spaesare nell’alternare punti di vista fra i due che fanno perdere originalità e nerbo al racconto. Non emerge in questo modo un ritratto che sia più che convenzionale di Elvis, incapace anche di diventare in pieno un antagonista per Priscilla, a sua volta ricondotta nel terreno tradizionale e poco appassionante di una moglie che soffre la distanza del suo amato. Il biopic ci sembra sempre più sollecitato dal proliferare di immagini e bollettini biografici di ogni tipo, dai social ai canali tematici, soffrendo una stanchezza al cinema confermata anche da Priscilla. Non certo fra i migliori film della Coppola, non risponde alla prima richiesta del genere: rendere interessanti i personaggi che racconta.
Un ritratto che rimane sfocato, come delle scelte formali che sembrano smorzare i contrasti per ampliare il senso di straniamento, una reclusione che allontana sempre più la realtà esterna della quotidianità di Priscilla e della figlia. Rimane l’immagine di una donna che rivendica la libertà, anche dal suo “carceriere” così inconsueto. In assenza delle canzoni originali, la Coppola ricorre in famiglia ai Phoenix e una scelta che va nella direzione dell’anacronismo tentata in Marie Antoinette, culminata con una versione cantata da Dolly Parton, in realtà la versione originale, di I Will Always Love You, resa immortale da un’altra donna imprigionata, ma dalla depressione dal talento, come Whitney Houston
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito