Peacock: recensione del film austriaco presentato alla Settimana della Critica 2024
Dall'Austria arriva una gradevole ma un po' derivativa opera prima, una tragicommedia sulla solitudine e sulle convenzioni sociali, sull'ansia di piacere a tutti i costi. La recensione di Peacock di Federico Gironi.
I modelli sono chiari: un pizzico di Ulrich Seidl, molto Ruben Östlund, una spolverata abbondante di New Weird greco. Rispetto al connazionale Seidl, l’esordiente Bernhard Wenger smussa di molto gli spigoli del sadismo, abbraccia l’ironia dello svedese due volte Palma d’oro e di molti nuovi autori greci.
Pur abbastanza asettico, geometricamente rigoroso, socialmente acuminato, Peacock assomiglia di più a una commedia che a un dramma, e questa sua certa teutonica leggerezza aiuta a renderlo gradevole.
La chiave, comunque, è quella del paradosso, fin dalle premesse, con un protagonista, Matthias, che per mestiere si rende quello che il cliente desidera: amico, accompagnatore, figlio.
Solo che, a forza di modellare le sue giornate, le sue parole, le sue espressioni sui desideri della committenza, Matthias vede svanire la sua personalità anche nella sua vita privata. La fidanzata lo molla, lui entra in crisi, e la crisi s’inasprisce quando una bega lavorativa fa leva sul suo senso di colpa etico e morale.
Tutto è molto dichiarato e tutto è molto esplicito, in Peacock, non c’è molto da leggere tra le righe, se non la tragicommedia di un uomo che ha modellato la sua vita sull’apparenza e l’illusione e che entra in crisi quando la vita stessa lo costringe a fare i conti con quello che è (se è) veramente.
Non ci sorprende molto nemmeno quando, in un finale chiaramente modellato su certe scene di The Square, Wenger racconta di un Matthias che, di fronte al massimo delle convenzioni sociali, della rappresentazione effimera e della ipocrisia che ci circonda, decide di agire radicalmente per ritrovare sé stesso e una nuova libertà.
Più che nel contenuto o, peggio, nel “messaggio”, il buono di Peacock va trovato nei toni, nei modi, nelle sfumature leggere ma definite con le quali Wenger riesce anche a far ridere il suo spettatore.
Sulle faccette imposte al o proposte dal protagonista Albrecht Schuch ci sarebbe da discutere - questione di gusto, l’ideale comico dei paesi di lingua tedesca è sempre opinabile - ma è interessante l’idea del film di farne una figura quasi keatoniana, che attraversa vita e vicende sempre con la stessa espressione vuota, smarrita e un po’ ebete, e che subisce duri colpi dai paradossi dell’esistenza e della società.
Ci sono poi trovate interessanti - il cane, la storia con la ragazza norvegese - ma Peacock, comunque gradevole, non riesce mai davvero a sottrarsi all’ombra dei suoi modelli, a trovare una chiave personale che lo faccia scartare un po’, risultando alla fine poco più di nuova filiazione di quella che oramai appare un’estetica art house che inizia a mostrare la corda.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival