Paddington 2, la recensione del sequel con l'orso creato da Michael Bond
L'orsetto amante della marmellata d'arance torna con un film elegante che non sbaglia un colpo.
Paddington, sempre ospite della famiglia Brown, vuole spedire all'amata lontana zia orsa Lucy un bellissimo libro pop-up su Londra, ma quest'ultimo fa gola anche al vanesio attore in disarmo Phoenix Buchanan (Hugh Grant), per ragioni che non sveliamo. Ci limitiamo a dire che Paddington ne passerà di tutti i colori e subirà una tremenda ingiustizia, ma la gentilezza, la famiglia e gli inseparabili panini alla marmellata avranno ancora una volta la meglio.
Lo scrittore Michael Bond, che aveva creato l'orso Paddington nel 1958 con i suoi libri illustrati, è morto nel giugno di quest'anno e Paddington 2 è dedicato alla sua memoria. Peccato. Peccato perché avrebbe avuto modo di ammirare la sua creazione in uno dei film per ragazzi (e non) più riusciti degli ultimi tempi. Paul King, di nuovo alla regia e cosceneggiatore qui con Simon Farnaby, ha definitivamente abbattuto le resistenze di chi scrive. Non avevamo amato moltissimo il primo Paddington, trovando la CGI con cui era animato il protagonista meno delicata della controparte su carta, e la villain di Nicole Kidman un po' fuori posto, in un racconto non troppo compatto. Nessuno di questi difetti c'è (o pesa) in questo piccolo gioiello tessuto con un affetto contagioso non soltanto per il personaggio, ma anche per un tipo di cinema che avevamo avuto la tentazione di dare per spacciato.
Paddington 2 è l'orso Paddington, letteralmente. E' carino e immediatamente simpatico come lui: la fotografia di Erik Wilson e il production design di Gary Williamson avvolgono lo sguardo con grande cura per il dettaglio e una predilezione per una dominante biscotto sulla quale spalmeresti volentieri tutta la tua marmellata d'arancia. Come Paddington, il film è ingenuo ma non stupido: King non disprezza nemmeno per un attimo gli escamotage più antichi come lo slapstick o le caratterizzazioni squadrate, ma non li abbraccia perché sta realizzando un "film per bambini". Li abbraccia perché crede in quell'intrattenimento che costruisca la suspense col sorriso, anche nell'assurdo o in una storia prevedibile. Come? Aderendo emotivamente al 100% con la personalità e il percorso del protagonista, trasmettendo un'empatìa che garantisce la vera sospensione dell'incredulità. Paddington non fa ridere perché è un buffone, fa ridere perché è fatto così: è una differenza colossale. Il film ha soprattutto - elemento cardine - il ritmo dell'orso Paddington, senza tempo e lontano dalle nevrosi e dagli isterismi di tanta animazione americana negli ultimi tempi. Scopri che il bambino in sala accanto a te sta effettivamente seguendo una storia coinvolgente, non soltanto una giostra luminosa che lo ipnotizzi rintronandolo. Tutto questo avviene senza rallentare mai, ma alternando dinamismo e interazioni tra i personaggi con eleganza, controllo e misura, lasciando che il rammarico e la commozione svisino nella gag senza spiacevoli contrasti.
E' la solidità della visione di King a trasmettersi sul cast, questa volta 100% europeo e visibilmente divertito: Grant gigioneggia ma non è un problema (anzi), anche se non riesce a intaccare l'aura di un titanico Brendan Gleeson nel ruolo del detenuto-cuoco "Nocche". Alla fine anche gli attori, così come il pubblico, sembrano convinti che il mondo possa vivere all'insegna della gentilezza, come sostiene orgogliosamente Paddington. E tutto il lungometraggio, con la ciliegina sulla torta di due toccanti e inaspettate sequenze oniriche, per un'ora e mezza genera davvero quell'inestimabile illusione. Terapeutico.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"