Megalopolis: la recensione del film di Francis Ford Coppola
Un film di smodata ambizione, che flirta costantemete col disastro (ridendone). Un film filosofico, coltissimo, avanguardista, tragico e farsesco. Di libertà totale e coraggio insensato. La recensione di Megalopolis di Federico Gironi.
Permettetemi, in questo caso, o ancora una volta, di fare un po’ di autobiografia. Non è egomania, è contesto. Terminata la proiezione di Megalopolis di Francis Ford Coppola, ero un po’ stordito. Stordito dalla quantità di roba che questo regista ha messo - bene o male, lo vedremo - nel suo film. Le dinamiche della comunicazione e della critica online contemporanea esigevano un pezzo redatto in tempi brevi, ma di tempo io avevo bisogno. Per metabolizzare, per riflettere. Allora ho vagato per un po’ nelle vie di Cannes, incerto sul da farsi: mangiare subito, e poi scrivere? Scrivere, e poi mangiare? Dormirci addirittura sopra? Ho camminato, ho riflettuto, ho mangiato una cosa veloce e leggera. Megalopolis non l’ho ancora digerito, assimilato del tutto. Forse non l’ho ancora compreso, del tutto. D’altronde, un film di tale densità, avrebbe bisogno di almeno due visioni per riuscire a cogliere tutte le sfumature, i rimandi, le citazioni. E però.
Mégalon è il nome di un materiale che è valso a Cesar Catilina (Adam Driver), architetto visionario e utopista il premio Nobel. Un materiale misterioso che sembra figlio della teoria delle stringhe come della chimica organica. Il materiale della città del futuro, immaginata da Catilina tra un eccesso alcolico e un abuso di sostanze, e una relazione amorosa, come qualcosa di indescrivibile, che lega l’architettura alla biologia, alla botanica, al resto di quella natura che l’uomo, col cemento, ha stravolto. Paladino del cemento, invece, è Frank Cicero (Giancarlo Esposito), sindaco di New Rome, una New York allucinata dove alla realtà, e al sogno utopico di Catilina, si mescolano eccessi art déco vertiginosi. E non solo perché la casa-ufficio di Catilina è in vetta al Chrysler Building (giacché New Rome è una New York sineddoche degli Stati Uniti, e forse dell’Occidente tutto). Catilina e Cicero sono acerrimi rivali da quanto il secondo era procuratore distrettuale, e indagava sulla morte e la sparizione del cadavere della moglie del primo. Si può ben capire come il sindaco non sia felice quando sua figlia Julia (Nathalie Emmanuel), socialite senza freni, mette la testa a posto per questo affascinante e visionario architetto di nero vestito.
Tra loro, l’ambiziosa giornalista televisiva Wow Platinum (Aubrey Plaza) che, lasciata da Catilina, si sposerà col ricchissimo banchiere Crassus (Jon Voight); il nipote di quest’ultimo, l’ambizioso e invidioso Clodio (Shia LaBeouf), che ha in odio il cugino Catilina. E tanti altri personaggi, a animare una storia che non è solo sul futuro di una città, di un paese (Clodio, che si metterà a fare il politico populista, sarà seguito da gente col berretto rosso…), dell’umanità tutta.
Mégalon, Megalopolis, megalomania. Quella megalomania che a Francis Ford Coppola non è mai mancata, che gli ha fatto scrivere alcune delle pagine fondamentali della storia del cinema, e che l’ha fatto sprofondare negli abissi della bancarotta. Che l’ha reso per anni un paria nella sua Hollywood. Non manca nemmeno qui, la megalomania. Non manca quella testarda, caparbia, incosciente tentazione di flirtare costantemente col disastro. Un disastro che Megalopolis costeggia, sorridendo - ridendo apertamente - di sé come dell’abisso nel quale non precipita mai; che tiene vicino, quasi come un monito, un memento mori, ma che allo stesso tempo gestisce con la spericolata e leggera noncuranza di un funanbolo (Coppola come Petit). Il futuro dell’uomo, nuove dinamiche del vivere collettivo, rivoluzioni copernicane esistenziali nel destino dell’uomo e nel suo rapporto con la natura. Mica sono questioni da poco. Filosofia seria, come quella che riguarda l’amore, e il tempo.
Il tempo. Ecco. Quante volte riecheggia questa parola, in Megalopolis. Che, non a caso, si apre con una scena di Catilina che, sul punto di precipitare dalla cima del Chrysler Building, si salva fermando il tempo. È il suo potere (magico? scientifico? non importa). È quello che ci fa capire che, per questo suo film smodato, colossale, profetico e definitivo, Coppola ha deciso di farsi beffe delle regole della fisica, della natura, della realtà. Figuriamoci un po’ di quelle del cinema. Il tempo che ossessiona Catilina, e che è in tensione costante con lo spazio, e con le relative dimensioni (l’autista e braccio destro di Catilina è Laurence Fishburne, il Morpheus di Matrix).
Megalopolis è visionario (l’aggettivo è abusato, qui pertinente), è chiaramente lisergico (la droga d’elezione di Julia, confessa a Catilina, era la psilocibina). Classico quando vuole, avanguardista sempre, è teatrale, cinematografico, sperimentale. Cita, ovviamente, la storia e la civiltà romane, per Coppola simbolo di un collasso che vede imminente anche nella civiltà americana contemporanea; pesca a piene mani dalla tragedia (di Shakespeare, battute comprese), ma non dimentica mai la farsa né la sarira; sembra rimandare a Scarface in certi momenti di delirio d’onnipotenza e di eccesso di Catilina, e rimanda - in maniera diretta o indiretta - a tantissimo suo cinema: su tutti, i tormenti amorosi e visivamente animati di Uno sogno lungo un giorno, ma anche gli intrighi del Padrino, gli intrecci legal-politici dell’Uomo della pioggia. C’è l’eco, perfino, dei tormenti folli del Kurz di Apocalypse Now.
Eppure, forse, Megalopolis più di tutti somiglia al Dracula del suo autore. Come il vampiro, Catilina vive una costante tensione con l’eternità (della sua opera), ed è in cerca di pace e redenzione (dal suo passato, dai suoi fantasmi, dalle sue colpe) tramite l’assolutezza pura dell’amore.
Allo stesso tempo, Catilina, nella sua costante tentazione autodistruttiva, e nella sua pulsione utopista e megalomane verso l’opera (architettonica come d’arte) assoluta e totale, e per l’appunto eterna, e perfino nel suo tormentato romanticismo, Catilina è chiaramente l’alter ego dell’uomo che l’ha immaginato, plasmato, rappresentato: Francis Ford Coppola.
Sicuramente, probabilmente, più intellettuale e cerebrale che non emotivo, a suo modo godardiano, Megalopolis è chiaramente il coronamento forse finale, definitivamente definitivo, di un autore che ha sempre sfidato le leggi dell’industria, dell’arte, perfino della logica (tanto cinematografica quanto imprenditoriale). Un film sorprendente, di una libertà totale, di un coraggio che travalica i limiti dell’insensatezza. Coltissimo, ricercato, curato in maniera maniacale in tutti i suoi dettagli: fotografici, scenografici, di montaggio. Anche il casting è sorprendente: e se Adam Driver non smentisce il suo passato, sono enormi, qui, Shia LaBeouf e Aubrey Plaza.
In un’epoca dominata da insensate polarizzazioni, da appiattimenti e omogeneizzazioni dello sguardo e del gusto, dal facile accordarsi degli autori nuovi e non alle mode e alle regole del momento, Megalopolis si staglia sullo schermo come un oggetto alieno, debordante, a suo modo sconvolgente, il cui carattere distintivo è quello di essere serissimo e pieno di umorismo e di autoironia al tempo stesso. Un film che ride di sé, e con noi che lo guardiamo, nella coscienza totale della sua spropositata ambizione. Solo i grandi possono permettersi questa ambivalenza.
E se, oggi, pare si debba sempre scegliere tutti tra disastro e capolavoro, per Megalopolis mi piego volentieri al diktat popolare, scegliendo il capolavoro. Il capolavoro di un cinema contemporaneamente dentro e fuori dal tempo, stretto nell'abbraccio tra petalo del passato e quello del futuro.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival