Mank: la recensione del film di David Fincher

09 novembre 2020
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Scegliete voi su cosa soffermarvi, di fronte a Mank. Perdetevi nella grazia e nell'arguzia dei dialoghi, nei livelli del racconto, nel ritratto dei personaggi e di Hollywood. Qualsiasi punto di vista adottiate, qualsiasi lato di un film così multiforme scegliate di privilegiare, vi troverete davanti a cinema puro. La recensione di Federico Gironi.

Mank: la recensione del film di David Fincher

C'è la storia della scrittura del copione di Quarto potere, con il geniale e alcolizzato Herman J. Mankiewicz impegnato nell'impresa in solitaria, e Orson Welles che furoreggia da lontano, egotico e dispotico (e, diciamolo subito, qui - almeno in apparenza - si sposa la linea di Pauline Kael, che regala allo sceneggiatore buona parte dei meriti di quel film, e in toto della sceneggiatura).
C'è la storia di William Randolph Hearst, ispiratore del personaggio di Kane nel film di Welles, e quella della sua amante Marion Davies.
C'è il ritratto della Hollywood degli anni Trenta, quelli dell'età dell'oro, del passaggio dal muto al sonoro, delle sue luci e delle sue ombre.
E c'è il contesto sociale e politico, con la Grande Depressione che ancora fa sentire la sua presenza, e il tentativo di Upton Sinclair (lo scrittore da cui Paul Thomas Anderson ha tratto Il petroliere) di diventare Governatore della California.
Ci sono tantissime cose, dentro Mank, e David Fincher le tiene tutte assieme. Senza meccanicismi, senza giochi esibizionistici di scatole cinesi o equilibrismi, ma mescolando piani e registri, sfumando un livello nell'altro, riuscendo a far risuonare ogni evento e ogni battuta in un contesto più ampio.

L'omaggio di Fincher al cinema di allora, e perfino allo stesso Quarto potere, sono evidenti, eppure anche meno ovvi di quanto non possa sembrare fermandosi alla magnificenza della fotografia in bianco e nero di Erik Messerschmidt, alla ricostruzione d'epoca, alla brillantezza dei dialoghi, o alla costruzione a flashback della vicenda.
E per capirlo, basta stare con gli occhi puntati su Mank, osservare e capire il personaggio, studiarne gli sguardi e le sfumature che arrivano dal copione così come dall'interpretazione di un Gary Oldman grandioso, impeccabile e generoso.

Mank è un film su uno sceneggiatore; e quindi, prima di tutto, è un film di sceneggiatura, di scrittura.
Se al termine della sua genesi Quarto potere porta la firma di Mankiewicz e di Welles assieme (giusto o sbagliato che sia, ognuno di voi può leggere Pauline Kael o Peter Bogdanovich sulla questione, e farsi la sua idea), questo Mank accredita in sceneggiatura il solo Jake Fincher, padre di David. Anche se è difficile pensare che nel corso degli anni trascorsi nel tentativo di realizzare il film, scritto da Fincher padre negli anni Novanta, Fincher figlio non ci abbia messo mano, anche per via dei tanti incroci con la nostra attualità: la crisi economica, l'innovazione tecnologica che sta trasformando il cinema (lì il muto, qui lo streaming), il ruolo del media nella politica, gli USA spaventati dai "socialisti" come Upton Sinclair o Bernie Sanders, e perfino la contrapposizione sempiterna tra il sistema industriale che pensa solo al denaro, e gli artisti che lottano per imporre una loro visione all'interno di quel sistema.

Ma è in ogni caso fuori di dubbio che anche la forza di Mank sta nel suo copione, nella struttura e ancora di più nei dialoghi, capaci di restituire in maniera dirompente l'intelligenza provocatoria e la cultura di Herman Mankiewicz, intellettuale diventato "umile sceneggiatore", il suo essere scheggia alcolica impazzita senza peli sulla lingua e troppo poco incline al compromesso e alla politica per farsi amare da Tinseltown, e il dinamismo di quegli anni così frenetici e stimolanti.
In Mank si alternano figure titaniche come David O. Selznick, Louis B. Mayer, Irving Thalberg, il "fratellino" di Mank, Joseph L. Mankiewicz, George K. Kaufman, oltre che ovviamente Welles, Hearst e Davies. Figure che, grazie a Fincher e agli bravissimi che ha trovato e diretto, non diventano mai figurine; titani che, grazie alla scrittura del film, vengono resi umani, mostrati in difetti e contraddizioni, ma mai sminuiti o ridicolizzati in maniera gratuita e banale.

Eppure, nonostante tutto questo, Mank non si esaurisce nella sua cinefilia, nella ricostruzione di quegli anni e della realizzazione di un film che cambierà molto di quel mondo e di quel modo di pensare e fare cinema. E a evitare tutto questo non è solo l'assenza di inutile e consolatoria nostalgia, né l'arguzia alla James Ellroy con la quale i Fincher hanno inserito nel loro film la storia di Upton Sinclair, e di come una Hollywood allora fieramente repubblicana contribuì in maniera subdola e determinante alla sua sconfitta elettorale.
La grandezza di Mank si trova nella complessa umanità incarnata nel suo personaggio principale, nelle sue motivazioni, nella sua autodistruttività, nel suo sentirsi corpo estraneo rispetto al sistema hollywoodiano cui aveva dato e continuerà a dare apporti fondamentali e solo apparentemente secondari.
La forza profonda di Mank è tutta nella malinconia e nel desiderio di amore che emergono dallo sguardo e dalle parole di Gary Oldman. Nel suo ripetere ossessivamente e in maniera solo in apparenza disincantata "Perché mi ami?" alla moglie Sara, nella sua testarda determinazione che lo allontana dalla gente cui tiene in nome dei suoi ideali o dei suoi capricci.

Ecco, allora, qual è il vero rapporto di Mank con Quarto potere: fatte le debite proporzioni, e i necessari distinguo, Herman Mankiewicz è il Kane del film dei Fincher, l'uomo il cui cinismo, ego e ostinazione hanno negato i riconoscimenti, i risultati e i legami che desiderava realmente. E se Mank è il Kane di Fincher, la Marion Davies della sorprendente Amanda Seyfried è la sua Rosabella, simbolo (sottilmente erotico: c'è un dialogo fra Mank e suo fratello Joe a testimoniarlo) di una pace e di un'innocenza perdute nel caos e nella frenesia opportunista del cinema, della vita, della propria autoindulgenza.
Ma allo stesso tempo, Mank è anche il Don Chisciotte folle e ingenuamente idealista di cui spesso parla, e che ha fatto di Marion, esplicitamente, la sua Dulcinea.
E dall'unione tra il suo esser Kane e Don Chisciotte, Herman J. Mankiewicz, raccontano i Fincher, è stato in grado di creare il suo capolavoro, il copione di Quarto potere, espressione cristallina e sintetica di titanismo e idealismo

Scegliete voi su cosa soffermarvi, di fronte a Mank.
Perdetevi ipnoticamente nella grazia e nell'arguzia dei dialoghi, nei livelli del racconto, nel ritratto dei personaggi e delle loro psicologie. Qualsiasi punto di vista o approccio adottiate, qualsiasi lato di un film così multiforme scegliate di privilegiare, quel che è certo è vi troverete davanti a una forma purissima di cinema, dentro e fuori il racconto.
Di un cinema magico e cinico, complesso e immaginifico, capace di riassumere tutte le sue forme e le sue contraddizioni. Un cinema che sembra resistere e crescere a ogni colpo, o ogni cinismo, a ogni trasformazione, a ogni figura che, in maniera più plateale oppure più oscura, ne attraversa e segna la storia e il destino.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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