Loro 2: la recensione della seconda parte del dittico di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi
Dove la farsa venata di tragedia diventa tragedia dai toni farseschi, ma sempre molto umani e compassionevoli.
Loro 2.
Loro due.
Silvio e Veronica.
Siamo lì, siamo ancora lì, alla coppia, alla tenerezza, al Berlusconi lato umano, che va di pari passo e a braccetto con quello lato pubblico, olgettine, cene eleganti, figuracce internazionali e compravendita di senatori.
Siamo ancora lì, al tentativo disperato di salvare un matrimonio, e una carriera, e una giovinezza che non c’è più da tempo, ma alla quale non si vuole rinunciare nemmeno quando tutto diviene patetico, quando la più giovane e riluttante tra le tue invitate ti dice che hai lo stesso alito (“né profumato, né maleodorante”) di suo nonno, e che quando tutto è patetico tutto è anche triste.
Eccola, allora, la tristezza. Che in Loro 1 era nascosta, e negata, e che in questo Loro 2 fa capolino fin dalla prima scena del film, quella nella quale - con intuizione spregiudicata e riuscita - mette Silvio a confronto con un Ennio Doris che ha il suo stesso volto, che è quello di Toni Servillo: perché tutto e tutti, in Loro (1 e 2) sono solo funzionali al riflesso di Lui, della sua megalomania, dei suoi complessi che questa volta hanno una definizione chiara (“d’inferiorità”) e una firma (quella di Javier Marias).
“Noi siamo venditori,” dice Ennio/Silvio a sé stesso. E in quanto venditori sono due cose: soli e persuasori. “La prima la mettiamo da parte perché ci renderebbe inutilmente tristi,” dice Ennio, “ma poi la riprendiamo, ce la ricordiamo.”
E difatti, a cena con Mike, Silvio, più avanti nel film, si sentirà apostrofare: “Sei triste. Non penso di averti mai visto triste.”
E sì, Silvio è triste, perché davvero non lo capisce, perché tutti ce l’abbiamo così tanto con lui, perché non lo amano come lo amavano prima, perché è finito all’opposizione, perché i giudici lo perseguitano, i giornali lo attaccano, Veronica lo vuole lasciare. Perché deve diventare vecchio.
Silvio è triste, è solo, è un venditore. È un persuasore. Silvio è allora Augusto Pallotta, il venditore di case che impersona in una sequenza esaltante, divertente e divertita, telefonando a una casalinga genovese per vendergli (e vendersi) un sogno fatto di salotti, balconi e aria condizionata: altro che le solide realtà di Roberto Carlino.
Perché Silvio la sa usare la psicologia, sugli altri, mentre se gli altri provano a usarla su di lui non succede niente. O forse non è così, visto che una casa riesce ancora a venderla (vendere case, dice, è quello che lo divertiva di più), ma non il resto: non la sua credibilità politica, o quella matrimoniale.
E allora torniamo alla tristezza, alla solitudine, ai complessi d’inferiorità, al patetismo, e alla decadenza. La decadenza di Silvio, del berlusconismo, di un paese che è stato innamorato di lui - come Veronica, contro ogni evidenza - ma che adesso basta, non ce la fa più, non gli crede più, e che è messo al tappeto da un terremoto che per Sorrentino è tanto metaforico (la rielezione a Presidente del Consiglio del 2008) quanto reale e concreto e drammatico (quello de L’Aquila del 2009).
Cade, Berlusconi, e con lui cade l’Italia, siamo caduti noi. Altro che loro.
Caduti e caduti male, come cade il Sergio di Scamarcio, come è caduta una città.
Noi caduti e Lui deposto, come la statua del Cristo estratta da una chiesa distrutta dell’Aquila nell’ultima scena del film.
Tutto è chiaro, evidente esplicito. Quasi didascalico.
Molto didascalico, nel caso del dialogo tra Silvio e Veronica nel momento chiave del loro matrimonio.
Sorrentino lo fa apposta. Gioca a banalizzare, come ha banalizzato, tutto, la tv di Mediaset, come ha banalizzato, tutto, il dibattito attorno a Berlusconi.
“La sinistra non riesce a mettermi a fuoco: pensa che tutto sia complicato,” dice il Silvio di Servillo. Mentre invece tutto è chiaro, come ricorda il mefistofelico braccio destro di Dario Cantarelli: sotto alla megalomania, l’infantilismo, l’erotomania, le barzellette e le canzoni napoletane e l’abilità del venditore non c’è niente. Quello che di Silvio vedi è quello che Silvio è.
Poi c’è quello che di Silvio non vedi, del tutto o per niente, e che è quello che Sorrentino ha voluto raccontare in questi due film, senza cadere nelle facili trappole del giudizio morale, né tantomeno politico, che non gli interessa distruggere un’icona, un simbolo, ma casomai umanizzarlo e quindi neutralizzarlo, disinnescarlo.
Ha provato a sbirciare sotto a quella maschera che, gli dice Veronica, non toglie mai, e di capire che uomo era, è stato, è, Silvio Berlusconi. Tra farsa (in Loro 1) e tragedia (in Loro 2). Dove la farsa è anche tragica, e la tragedia farsesca.
Raccontando la storia di un venditore che è rimasto un piazzista, di uno che ha svenduto l’Italia e sé stesso, cercando di comprendere, ma anche di divertirsi.
Come quando, col finto spot di una fiction intitolata “Congo Diana” Sorrentino pare rimandare ai b-movie di Bruno Bonomo, il protagonista - guarda un po’ - di un film dal titolo Il caimano.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival