La stanza accanto: la recensione del film di Almodovar con Julianne Moore e Tilda Swinton
Al debutto con una storia girata in lingua inglese, Pedro Almodovar si regala due straordinarie attrici come Julianne Moore e Tilda Swinton in un passo a due fra vita e morte con dialoghi lunghi e uno sguardo sull'eutanasia personale. La recensione di Mauro Donzelli de La stanza accanto, in concorso a Venezia.
È quasi un modo di vedere la vita, sicuramente una maniera per raccontarla nel suo cinema, scegliere due donne come protagoniste, se non sue alter ego. Pochi come Almodovar hanno condizionato la realtà a una visione al femminile, ne hanno compreso e condiviso la visione del mondo e le recriminazioni. Non saranno madri parallele, per rievocare il titolo del suo (splendido) film precedente, ma questa volta le sistema in due stanze vicine, The Room Next Door come ricorda il titolo originale, La stanza accanto quello italiano. Un’immagine mirabile per sintetizzare il rapporto che si viene a creare, quell’accompagnamento di una alla tappa definitiva dell’altra, a cui regala qualcosa di unico, apre riflessioni etiche e stimola un dibattito ancora troppo latitante come quello sull’eutanasia, schiacciato fra ideologie e tabù.
Non che questo sia l'intento del regista spagnolo, non tanto interessato a riflessioni etiche quanto all’aspetto umano, l’intimo momento di condivisione fra due donne, amiche ma perse di vista per molti anni, che si ritrovano di fronte alla scelta di morire di una delle due. Due interpreti straordinarie come Tilda Swinton (Martha) e Julianne Moore (Ingrid) certo non deludono nel sostenere i molti dialoghi del battesimo di Almodovar con la lingua inglese. Le due si sono conosciute da giovani lavorando nella redazione della stessa rivista, poi Ingrid è diventata scrittrice di buon successo e si trova a New York per presentare il suo ultimo libro quando viene informata da una vecchia amica in comune che Martha è malata gravemente di cancro. La sua è una carriera che l’ha portata in giro per il mondo come reporter di guerra. Ingrid la va a trovare, Martha le chiede di accompagnarla in una villa nel verde dove ha deciso di prendere delle pillole per optare per l’eutanasia. La vuole semplicemente nella stanza vicina, non complice.
Una scelta che può apparire impulsiva, ma non lo è, sembra molto decisa e pensa di poter ricostruire quell’intimità sospesa da anni di mancata frequentazione, di fronte a una circostanza così estrema. La stanza accanto è il racconto di chi ha talmente raccontato la morte da non avere più parole per raccontare la propria. “Di questa guerra non riesco a scrivere niente”, dice la Swinton commentando il suo spaesamento. La sua è una presa di consapevolezza, il bisogno di essere lei in prima persona a gestire la malattia, mantenendo il controllo della sua vita e soprattutto della sua morte, quando sembrere impossibile, facendo un bilancio che presupponga un equilibrio interiore e di relazione con l’ambiente, senza pregiudiziali sociali e, naturalmente, un enorme coraggio.
Non è una storia sul tentativo di convincere l’altra a cambiare idea, ma di rappresentare con dolcezza un percorso per una volta consapevole nei confronti della tappa comune a tutti noi, normalmente in arrivo senza preavviso. In uno scenario di grande bellezza, in un’esplosione di colori e con una luce che trasmette serenità le due si trovano a discutere del passato, dei rapporti interrotti, come quello di Martha con la figlia, in un film che evita assolutamente retorica e la lacrima facile, fino al punto di rischiare una certa algidità, una programmaticità nel racconto amplificata dal consueto classicismo della messa in scena di Almodovar nuocciono a una piena adesione emotiva. Fortuna che ci sono Swinton e Moore a deliziare con il loro talento.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito