La donna elettrica: la recensione dell'originale e surreale commedia/thriller islandese di Benedikt Erlingsson
Presentata alla Semaine de la critique 2018, esce in Italia distribuita da Teodora.
Quando la vediamo correre attraverso l’incontaminata natura islandese, con quei colori addosso, con l’arco a tracolla, la protagonista di La donna elettrica (e sì, il titolo fa riferimento a lei: è il suo nome da ecoterrorista) sembra un po’ una Robin Hood ecologista.
Poi, in casa, torna ad essere una tranquilla signora borghese di mezza età un po’ fricchettona, coi ritratti di Nelson Mandela e Gandhi sulla parete del salotto, e Virginia Woolf nello scantinato; anche se sempre meno della sorella gemella vestita d’arancione che insegna yoga e sta per partire alla volta di un ashram in India.
Un'identità pubblica e una segreta. Ma anche due gemelle.
Un’Islanda sospesa tra antichi riti vichinghi, allevamento di bovini (con annessi in-jokes) e modernissimi droni e videocamere di sorveglianza.
Un film che è un po’ commedia e un po’ thriller eco-politico, e che a tenere assieme le sue varie anime, le scene e i personaggi mette in scena - letteralmente - autore ed esecutore della colonna sonora (Davíð Þór Jónsson, Magnús Trygvason Eliasen e Ómar Guðjónsson), che con tre cantanti ucraine sono una sorta di coro greco che commenta la storia e allo stesso tempo sorta di rassicuranti angeli custodi della protagonista, che è interpretata da una leggenda della recitazione islandese come Halldóra Geirharðsdóttir.
Ancora più sopra, a tenere assieme tutto questo, a dare al suo film il tono del racconto morale e mitologico, che fortunatamente però evita moralismi, simbolismi esagerati e pedanterie, è Benedikt Erlingsson, sceneggiatore e regista, che ha avuto tutte le idee e le ha messe in scena, compresa quella - molto ironica e un po’ coraggiosa, e decisamente riuscita - dell’infilare nelle inquadrature i suoi musicisti.
Che ha voluto mettere il suo pubblico di fronte a una storia che parla di questioni molto attuali, senza cercare di risolverle con eccessiva faciloneria, ma lasciando la matassa vagamente ingarbugliata: fino a che punto è lecito lottare per un ideale pur nobile? Cosa differenzia un eco-terrorista da un terrorista islamico, o alla Breivik? Che speranze hanno gli sparuti singoli contro un sistema economico e politico che divora perfino nella piccola e felice Islanda, figuriamoci da noi?
Erlingsson, di fronte a tutto questo, fa un passo indietro.
Non certo per pavidità, ma per rispetto nei confronti di qualcosa che è più grande di noi, e che domina tutto il suo film, che sta sopra alla protagonista, alla gemella, ai musicisti, al regista, e al tempo stesso gli sta dentro, a tutti quanti.
Perché è la Natura la protagonista di La donna elettrica: la natura islandese, selvaggia e bellissima, che la nostra Robin Hood vuole proteggere, e dalla quale è protetta (dalle rocce, dai ghiacciai, dalle pecore), che nasconde i suoi segreti e i suoi desideri (una foto sotto il muschio), che accoglie sfortunati cicloturisti sudamericani e che allaga le strade ucraine.
Ma anche la natura umana, fatta di sogni e speranze e ideali e desideri, di un aiuto al prossimo che parte dai grandi temi, ma i solitaria, e arriva a quella cosa che è alla base di tutti i rapporti umani e dei legami: il contatto tra un genitore e un figlio.
Biologici o meno, non importa: è natura lo stesso.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival