La casa dalle finestre che ridono - La recensione dell'horror di Pupi Avati

29 gennaio 2020
4.5 di 5
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Nel 1976 il regista bolognese realizza quello che diventa un classico instantaneo e un cult movie del genere, ribattezzato gotico padano e che ancora oggi regge alla prova del tempo.

La casa dalle finestre che ridono - La recensione dell'horror di Pupi Avati

Stefano, un giovane restauratore, arriva in un paesino della Bassa Padana, nella zona di Comacchio, chiamato dal sindaco a lavorare su un affresco affiorato in una chiesa, opera di un artista del luogo, Buono Legnani, un tipo bizzarro conosciuto col nome di “pittore delle agonie”, per la sua abitudine di ritrarre i soggetti nel momento della morte. Sul posto, Stefano ritrova un amico, il chimico Antonio Mazza, che gli rivela che è stato lui a farlo chiamare e gli confessa di aver scoperto un orribile segreto. Questa è la storia da cui parte l'horror di Pupi Avati La casa dalle finestre che ridono, uscito nel 1976 e diventato un cult movie che ha travalicato le frontiere nazionali. Amato da legioni di fan, oggetto di studi monografici, con le location diventate meta di una sorta di pellegrinaggio cinefilo, è il primo e più riuscito esperimento nel genere del regista bolognese, che l'ha anche scritto, assieme al fratello Antonio, a Gianni Cavina e a Maurizio Costanzo, valido collaboratore dei suoi primi lavori.

Avati, dopo averlo a lungo considerato opera minore della sua filmografia, sembra con gli anni aver fatto pace con l'enorme apprezzamento ottenuto dal film, nato per realizzare un horror diverso e a basso costo, sulla base di quei racconti intorno al fuoco che venivano fatti nelle campagne per far star buoni i bambini. La narrazione di storie tra la leggenda e la cronaca nera era un tempo quasi un rito di iniziazione e da adulto Avati ha dato forma a un paio di questi racconti, che l'avevano spaventato da bambino. Il risultato è un film che ha resistito all'usura del tempo e che è ancora capace di far paura. A partire dal ribaltamento di prospettiva su luoghi visti di consueto come terra di gente sorridente e bonaria, trasformati in scenari di orribili perversioni, paludosi e cadenti paesaggi da cui si sprigiona un senso di pericolo che cattura come una ragnatela i protagonisti (e di conseguenza il pubblico) della vicenda.

Al centro di tutto c'è un estraneo, inconsapevolmente attirato in una trappola come il sergente Howie di The Wicker Man: la causa della sua rovina sarà l'ostinazione con cui resiste alle telefonate che lo invitano ad andarsene, alla morte improvvisa dell'amico che lo ha chiamato, alle allusioni e alle strane coincidenze che lo portano dove non dovrebbe essere, assieme alla curiosità insopprimibile di scoprire quale mistero si cela dietro gli inquietanti quadri dipinti da Legnani (opera del pittore e illustratore ferrarese Emanuele Taglietti). La casa dalle finestre che ridono è un film che parla di una placida provincia in cui accadono i crimini più atroci e impensabili e dell'omertà di un intero paese, che sa ma tace e preferisce sacrificare i suoi outsider, più che per paura delle conseguenze, per non turbare la quiete apparente dello status quo. Del resto, una delle cose per cui il paese è apprezzato, dice all'inizio il Solmi di Bob Tonelli, è il silenzio.

L'ingenuo Stefano di Lino Capolicchio (all'epoca una star del nostro cinema, premiato col David per Il Giardino dei Finzi Contini) si fa sedurre con facilità: prima dalla maestra ninfomane, poi dalla bella supplente che la sostituisce, ma soprattutto da una situazione che lo trasforma in detective e lo conduce inesorabilmente verso la caduta. Il nucleo della storia è preannunciato già dai bellissimi titoli di testa, con le parole affannose pronunciate da Gianni Cavina - la cui performance nel ruolo di Coppola è uno dei punti di forza del film - sulle scene sfocate di una tortura, col sangue che scorre e si confonde coi colori del pittore. Per arrivare alla conclusione dovremo seguire Stefano guidato da quel mostruoso Virgilio che nel film è Lidio (Pietro Brambilla), tra racconti di topi bolliti vivi o infilati nella bara dell'amico, che non sembrano turbare il protagonista, tanto è teso a risolvere il segreto di quel quadro blasfemo, quel martirio di San Sebastiano in cui le lame impugnate da due megere trafiggono ripetutamente il corpo del santo.

Estremizzando il discorso, potremmo dire che Avati prefigura addirittura la satira di Omicidio all'Italiano di Maccio Capatonda. Il il fiume è inquinato e di anguille non ce ne sono più, quando il prete con Stefano va a pesca, l'unico ad abboccare all'amo è un insignificante pesciolino, nessun turista viene a visitare quelle zone (gli ultimi sono stati i nazisti, come dice la cameriera a Stefano). All'epoca della riscoperta di Antonio Ligabue, forse anche quella di un altro pittore matto può servire ad attirare l'attenzione sul paese, anche se alla fine è più probabile che a farlo sarà la rivelazione di una storia trucida ed efferata. Martirio, incesto, sadismo e magia nera: c'è davvero di tutto dietro le porte cigolanti, le soffitte che si trasformano in stanze di tortura, un armadio che non si apre, ossa umane che affiorano dal terreno su cui sorge una casa con dipinte grandi bocche sorridenti (opera di Antonio Avati), un registratore a bobine che ripete assurde parole e una vecchietta inferma da anni nel letto al piano di sopra di una villa cadente circondata dal verde.

Sembra impossibile che per girare questo film ci sia voluta solo una troupe di 12 persone, e che un regista ancora - relativamente - alle prime armi con questi elementi sia riuscito a creare un nuovo e personale genere, il cosiddetto gotico padano, cui tornerà dopo una lunga assenza nel 2019 con Il signor diavolo. La colonna sonora è composta da due semplici ma efficaci temi di Amedeo Tommasi e tutto il reparto tecnico dà il meglio di sé, diretto come un'orchestra da un maestro che sa trovare sempre la nota giusta, tanto che – al contrario di quanto succede spesso col cinema dell'orrore odierno – non ci soffermiamo neanche un momento a riflettere su eventuali illogicità o enigmi irrisolti e ci accorgiamo solo dopo molte, molte visioni, che nelle scene di sesso Lino Capolicchio resta sempre vestito.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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