Jouer avec le feu: la recensione del dramma con Vincent Lindon presentato in concorso a Venezia
Un uomo single e due figli che hanno finito le scuola, una famiglia molto legata e affettuosa che inizia a sfaldarsi quando il più giovane inizia a frequentare ambienti dell'estrema destra. La recensione di Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin con Vincent Lindon, in concorso al Festival di Venezia.
Sono affettuosi in maniera non comune, fra maschi, specie fra padre e figli. Sono in tre, la madre/moglie è morta e da alcuni anni sono una squadra. Si aiutano con le faccende domestiche, cucinano in base ai turni del padre, un cinquantenne che lavora nella manutenzione dei binari del treno alta velocità, spesso di notte. Per cui le loro giornate sono un passaggio continuo di testimone e impegni, al lavoro, a scuola per il più piccolo, che ormai sta finendo e deve scegliere l’università, e per lo più a calcio per il ventiduenne, che è un centrocampista di buon piede e tifa per la squadra locale, ma non lavora. Nel 2011 il loro primo film di Delphine e Muriel Coulin, 17 ragazze, tutto al femminile, raccontava il bizzarro evento reale di una scuola in una piccola cittadina in cui 17 adolescenti rimasero incinta a breve distanza. Hanno poi raccontato due ragazze arruolate nell’esercito, in pausa in un resort di vacanza dal loro turno di servizio in Afghanistan in Voir du Pays.
Questa volta, in Jouer avec le feu, è tutta al maschile la loro storia, analizza la dinamica di fratellanza e il rapporto padre e figlio, il cameratismo di una squadra di calcio, ma soprattutto quella di un movimento neonazista, che si riunisce anche la domenica alla stadio come ultrà, con cui il maggiore, palesemente quello meno inquadrato dei due, ancora in cerca di una direzione, ha iniziato una frequentazione, sul punto di diventare un’affiliazione. Emerge allora il culto del corpo e della forza, la violenza dei ritrovi all’insegna di incontri illegali di MMA, e un’improvvisa freddezza nei confronti del padre. Come reagire a un figlio che si indirizza così palesemente verso valori ben lontani da quelli del padre, operaio come tanti devoto alla famiglia, a valori di sinistra e di tolleranza e a un approccio etico con il lavoro?
Vincent Lindon è la scelta diremmo inevitabile, per il ruolo del padre, alla luce della sua carriera e delle sue straordinarie abilità nell’immedesimarsi in una situazione di questo tipo. Prosegue un percorso attoriale nelle pieghe sociali di una Francia in crisi di identità, che subisce sconvolgimenti nei posti di lavoro, ma è anche alle prese, come molte realtà europee, con un aumento delle derive estreme, un fondamentalismo di destra che risorge in luoghi spesso inattesi, come nel nucleo familiare di Jouer avec le feu. Si gioca con il fuoco, per l’appunto, quando ci si orienta verso una negazione delle regole e dell’ordine costituito, identificato come causa di ogni male, di ogni personale insoddisfazione o incapacità nel perseguire una carriera soddisfacente. Il classico esempio di domanda legittima e di cattivi maestri (e camerati) pronti a dare le risposte più facili e pericolose, quelle che cercano nemici in casa, i migranti, i diversi, pur di non prendersi mai direttamente su di sé la responsabilità di una vita che non decolla.
Nessuno spazio alla retorica, il film prosegue per accumulo di tensione e svolte sempre più cupe, in una direzione cieca e inevitabile, mentre il padre non cede alla sua visione etica del proprio ruolo nella società, pur cercando di dimostrarsi padre amorevole. Ma come fare, come poter aiutare un figlio vittima da - in fondo - una diversa forma di dipendenza, senza che sia lui in prima persona a prendere l'iniziativa, a disintossicarsi dalla visione deformata della vita e della convivenza? Domande, più di una, per le risposte non si può certo pretendere che vengano dal cinema.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito