Io Capitano: recensione del film di Matteo Garrone miglior regia al Festival di Venezia 2023
L'odissea e gli sbarchi dei migranti raccontati dal punto di vista non di chi accoglie ma di chi arriva sulle nostre coste permette a Matteo Garrone di rivendicare la dignità del singolo individuo, muovendosi tra fiaba e romanzo di formazione. La recensione di Carola Proto.
È difficile stabilire quale scena di Io Capitano porteremo a lungo nel cuore, quali immagini e parole continueranno a commuoverci quando il film avrà compiuto il suo giro: forse il barcone che di notte naviga silenzioso nelle acque scure del Mediterraneo, o anche l’immenso deserto del Sahara attraversato faticosamente da piccole figure indistinte. Di certo, per un regista/pittore che, come David Lynch, parte da una suggestione visiva, un'immagine può essere potente ed evocativa di per sé, senza che la si debba "sporcare" con il dialogo o accompagnare con una musica assordante. Basta contemplarla e poi lasciarsi travolgere, o anche solo cullare, approfittando della dimensione "dilatata" del viaggio, che, per quanto avventuroso, ha un suo ritmo e una sua alternanza di quiete e di tempesta, di azione e di reazione.
Per Matteo Garrone il senso di Io, Capitano sta proprio - sebbene non soltanto - nel viaggio: un viaggio che somiglia a quella strada che per Giorgio Gaber era l'unica salvezza. Di sicuro, per Seydou e Moussa è una salvezza a caro prezzo, costretti come sono a seguire un cammino irto di minacce umane e reso ancora più aspro da una natura ostile. Per percorrerlo sono necessarie gambe robuste e giovani, e ben allenate. Chi non le ha verrà lasciato indietro a morire, inghiottito dalla sabbia insieme alla speranza di un avvenire sereno.
Tornando alla domanda iniziale, sono tanti, in realtà, i momenti suggestivi del film di un regista che agli effetti speciali preferisce l'artigianalità e i paesaggi reali. E, a proposito di realtà (e realismo), guai a scambiare Io Capitano per un ibrido, nella fattispecie un film per metà documentario e per metà di finzione. E infatti, se a un primo sguardo i personaggi sembrano poco caratterizzati, poi acquistano significato e materia, e succede perché il loro obbligato "passaggio per l’inferno" è la metafora di un'evoluzione interiore che si risolve prima nella perdita dell’innocenza e poi nella consapevolezza che diventare adulti vuol dire avvertire un senso di responsabilità e accudire, più che essere accuditi.
In questo senso, Io Capitano è a tutti gli effetti un romanzo di formazione, e Seydou e Moussa, a pensarci bene, sono un po’ come Pinocchio, che abbandona chi lo ha messo al mondo e, ascoltando cattivi consigli, si fa rubare i pochi zecchini d'oro che ha in tasca. E se ai loro occhi l'Europa appare come un paese dei balocchi, c'è senz’altro un uomo che fa le veci di un genitore salvifico e affettuoso, e che quindi ricorda la Fata Turchina. Non manca neppure il pescecane, che ovviamente è il barcone sporco e arrugginito che parte da Tripoli e punta verso la Sicilia. Nella sua pancia di ferro, però, non c'è Geppetto, perché mentre Pinocchio alla fine si trasforma in un bambino vero, Seydou deve diventare un uomo, ed è normale che, prima che questo accada, i cattivi gli appaiano come dei mostri e la fatica fisica come il prezzo da pagare per tuffarsi in un'avventura degna del più prodigioso esploratore.
Forse in Io, Capitano c'è poco di nuovo e inedito sui sacrifici che un migrante è costretto a fare per abbandonare la terra che gli ha dato i natali e raggiungere il vecchio continente, ma Garrone non parla soltanto a chi sa e ha letto e ha visto, ma anche, anzi soprattutto, a chi non sa o non immagina neanche lontanamente che in Africa le fughe clandestine hanno portato alla nascita di un vero e proprio business, un piatto in cui c’è da mangiare per tutti: banditi, interpreti, autisti, fornitori di passaporti falsi, scafisti, militari. Sono loro i cattivi del film? Se Seydou è Pinocchio, allora questi loschi figuri potrebbero essere i dottori di cui il burattino ha terrore, ma siccome il film racconta pur sempre storie vere, le ben note orecchie da ciuchino con cui una mattina si svegliano Lucignolo e Pinocchio diventano, per i due giovani protagonisti, ematomi, occhi neri e ferite da arma da fuoco, e bisogna sbrigarsi a raggiungere la Terra Promessa, se si vogliono evitare l'amputazione o la morte per setticemia.
Non è casuale che Io Capitano dedichi ampio spazio alla quotidianità di Seydou e di Moussa nel loro paese di origine, e cioè il Senegal. È questa la parte più bella ed emozionante del film, che ci mostra un paese povero ma che non perde quasi mai il sorriso, un luogo accogliente nel quale i nostri due sedicenni scrivono canzoni, indossano orgogliosamente la maglia del Barcellona dei tempi d'oro e ai piedi hanno sneakers che sono una perfetta imitazione di un modello di Nike particolarmente in voga. E attenzione: è questa lunga introduzione che ci restituisce non personaggi ma persone, evitando così, nella successiva ora e mezza di film, di far apparire l'intero contingente di migranti come una massa indistinta e anonima, come bestie da soma senza intelletto o, peggio ancora, come dei selvaggi con il gonnellino di paglia. I due ragazzi di Dakar e i loro compagni di traversata sono invece un insieme di individui a cui bisogna riconoscere la dignità di uomini, o anche la dignità dei vinti. E i vinti hanno desideri e speranze come chiunque altro, solo che sono più sfortunati. Per questo è importante per Seydou che nessuno muoia durante il viaggio, e lo è anche per Matteo Garrone, che fa un'altra scelta molto giusta: evitare ciò che tanti film sull'immigrazione ci hanno mostrato, e quindi i primi soccorsi, il soggiorno nei centri di accoglienza e così via.
Non c'è il desiderio di distinguersi dagli altri registi a monte di questa decisione, ma solo un bisogno profondo di non rovinare il sogno europeo di Seydou e Moussa. Garrone, seppur consapevolmente, preferisce restare con l’illusione che quella disgraziata brigata, che ha rischiato la vita per arrivare sulle nostre coste, avrà effettivamente un'esistenza migliore e troverà un lavoro e una casa, e forse metterà su famiglia. In fondo non è così che finiscono le fiabe, che per Garrone sono tra le forme di narrazione più belle di sempre? Io, Capitano, tuttavia raccoglie e mescola storie realmente accadute, e le poche incursioni nel realismo magico, che siano sogni o miraggi, confermano la grande capacità affabulatoria di un regista che non perde mai la pietas nei confronti dei suoi personaggi: fallibili come gli esseri umani e archetipici come gli eroi e gli antieroi dei poemi omerici.
Chi arriva stremato nei nostri porti, sembra dirci infine il film, ha già combattuto e vinto una battaglia, e spesso è sopravvissuto per miracolo. Ha già le sue cicatrici, insomma, e può resistere solo se non gli viene tolta la possibilità di fantasticare, perché l'uomo che non ha più una ragione o un ideale per cui combattere, è un uomo smarrito, sconfitto e morto dentro.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali