Io, Arlecchino: recensione del primo film da regista di Giorgio Pasotti
Insieme a Matteo Bini, l'attore difende la libertà e invita al rispetto della tradizione.
E' delicato e niente affatto lezioso Io, Arlecchino.
E' garbato senza essere nè goffo nè timido l'esordio nella regia di un attore che ci piace da tempo definire "gentile".
E' leggero ma non superficiale, romantico ma non sentimentale l'omaggio che un uomo di cinema ha voluto fare a una grandissima maschera del teatro: quell'Arlecchino che dalla metà del Cinquecento è la quintessenza di una libertà gioiosamente anarchica e di un'arguzia verbale mai premeditata.
Nel suo invito a riconoscere l'importanza della tradizione, soprattutto in relazione a un mestiere sempre più battuto dal vento della sciatteria e del falso naturalismo, Giorgio Pasotti ha intrecciato vita vissuta a vita inventata, e da artista non più ragazzo ha voluto compiere un percorso a ritroso, verso le terre bergamasche che gli hanno dato i natali e da cui si è allontanato per trovare la propria strada prima in Cina e poi negli Stati Uniti.
Riappropriandosi in un certo modo di sè e di una dimensione più domestica, intima e meno chiassosa dell'esistenza, il nostro sembra aver anche imparato una nuova arte e, in un mondo nel quale tutti si improvvisano registi – arenandosi dietro a una macchina da presa fissa e a un direttore della fotografia che è anche direttore del lavori – ha accettato i consigli di Davide Ferrario e chiesto la collaborazione dell'amico Matteo Bini, con cui impostare un solido lavoro a quattro mani.
Allo stesso modo, Pasotti non ha tenuto la scena tutta per sé. Ha scelto piuttosto di “giocare” con Roberto Herlitzka, Lunetta Savino e altri colleghi che, interpretando degli attori, hanno intrecciato alla propria robusta personalità un personaggio e perfino una maschera, senza lasciare che il ricorso al teatro nel cinema diventasse un pretenzioso metalinguaggio.
Questo gioco delle identità – che riflette la confusione di un protagonista alla ricerca di un senso – è solo una delle dialettiche che attraversano Io, Arlecchino, che si impone anche come la ricostruzione di un rapporto padre-figlio e la storia di uno spostamento da una metropoli nella quale si fa brutta televisione a una provincia quieta, incontaminato microcosmo in cui i lazzi di un servo appagano gli occhi di chi ancora preferisce l'immaginazione ai sentimenti esasperati e mercificati dei reality.
Forse è nella rappresentazione del piccolo schermo, con il suo bestiario di produttori gaglioffi e simil-veline, che il film di Pasotti e Bini sembra perdere un po' di efficacia, ma probabilmente è la sgradevolezza dello spettacolo che ci ritroviamo a contemplare a motivare il desiderio che certe scene passino in fretta e che si torni alla spontanea vivacità della Commedia dell'Arte. Delle varie forme di teatro, questa è certamente fra le più difficili, perché affidata a un attore quasi sempre ridotto soltanto a voce e corpo.
Giorgio la battaglia con il principe dei lazzi dal costume a losanghe l'ha certamente vinta, come si vede in un scena di cui non riveleremo nulla.
Per la sua prossima sfida, sul set come dietro al monitor, consigliamo più di rabbia.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali