Il mio posto è qui: recensione del film con Ludovica Martino e Marco Leonardi
Ad aggiudicarsi due premi al Bari International Film Festival 2024 è stato Il mio posto è qui di Cristiano Bortone e Daniela Porto, storia di emancipazione femminile e di amicizia ambientata nella Calabria del dopoguerra. La recensione di Carola Proto.
Ci sono tempi e luoghi, e anche storie inventate, in cui una donna è ridotta al rango di femmina e come tale viene chiamata. Succede per esempio nel film di Cristiano Bortone e Daniela Porto Il mio posto è qui, in cui la parola "femmina" viene pronunciata nella prima scena dall'innamorato della protagonista Marta insieme al pronome possessivo "mia". Più avanti sarà invece una donna a sottolineare quanta disistima e quanti pregiudizi si nascondano dietro l'utilizzo di un termine che vorremmo trovare solo nei libri di biologia. Questa donna è una giovane comunista del secondo dopoguerra, che in una Calabria affaticata dall'indigenza e per alcuni aspetti medievale esorta un piccolo gruppo di aspiranti dattilografe a non essere "femmine mosce ma donne forti". Il suo invito suona davvero come un grido di battaglia, e la battaglia si combatte in nome della libertà, che ancora oggi si acquista quando si diventa economicamente indipendenti.
Ne Il mio posto è qui siamo in un momento cruciale della storia del nostro paese e delle lotte femminili: da una parte c'è un'Italia che ancora vorrebbe la monarchia ed è rimasta come stordita dalla guerra, dall'altra ci sono due partiti politici (PCI e DC) con le idee chiare. Infine, nel 1946, le donne conquistano il diritto di voto. Ciò nonostante, il vento della rivoluzione soffia poco nel paese di Marta e della sua famiglia antipatica e retrograda, dove a comandare è l'uomo anzi il maschio, che porta a casa il pane e che nei discorsi del parroco locale diventa una figura quasi primordiale e simbolica.
In questo senso appare piuttosto chiaro l’intento dei registi, che, attraverso l'emancipazione di una ragazza madre, parlano del nostro presente, e quindi di femminicidio, violenza fisica e verbale e violenza sessuale. Non è un caso, quindi, che il contesto in cui la vicenda si svolge sia la quintessenza del patriarcato e il terreno di gioco di un'ottusità che, mescolata all'ignoranza, diventa odiosa e intollerabile, ma se davvero ci fossimo lasciati alle spalle una mentalità così antiquata e ingiusta, probabilmente i personaggi di contorno del film non ci apparirebbero così malvagi.
Non ci vuole il genio della lampada per capire che la strada da fare è ancora molta, e tuttavia Il mio posto è qui, che comunque ha un significato politico, non è un film ideologico, perché il pensiero e la visione di Cristiano Bortone e Daniela Porto arrivano a noi attraverso i sentimenti dei protagonisti, il secondo dei quali è Lorenzo, che organizza matrimoni e viene chiamato "il finocchio del paese". Il mio posto è qui è anche la storia della sua amicizia con Marta, su cui proietta le sue aspirazioni di un tempo e il suo bisogno di fare di testa propria. È molto bello il rapporto che si viene a creare fra questi due grandi esclusi o figlioli prodighi di una bigotta comunità contadina, perché neanche Marta è ben vista, dal momento che, restando incinta da nubile, secondo i più ha trascinato i suoi genitori nel fango.
Buona parte dell’umanità del film è insomma atroce, oltre che incattivita dalla povertà. E a proposito di povertà, è da apprezzare la scelta di Bortone e della Porto di non aver voluto restituire un sud Italia oleografico. La gente che lo popola è stremata, nessuna tavola è imbandita, le case sono disadorne e perfino la luce è poca, e tutto ciò contribuisce a rendere ancora più claustrofobica la "prigionia" di Marta, che accetta di sposare un contadino brutto e antipatico e padre padrone. A questo scenario fosco abitato da corpi a cui si incolla la macchina a mano, fa da contrappunto la vita nascosta degli omosessuali del luogo, che ascoltano canzonette e ballano teneramente abbracciati in una delle sequenze più suggestive de Il mio posto è qui, caratterizzata da una luce morbida e calda che sembra suggerire l'assenza di giudizio e quindi la possibilità di essere felici, seppure in gran segreto.
Ne Il mio posto è qui c’è un personaggio importante di cui non abbiamo ancora parlato: la natura. Non siamo in uno scenario marino. Ci sono i boschi e le montagne, che i registi riempiono di suoni, ad esempio il rumore del vento. Il paesaggio respira, quasi in accordo al battito cardiaco di Marta, che, scena dopo scena, smette di essere una ragazza semplice con un fazzoletto rosa in testa e diventa fiera e ribelle come alcuni personaggi femminili dei libri delle sorelle Brontë, a partire da Catherine di "Cime tempestose", anche lei fusa con il paesaggio minaccioso e selvaggio. E se Marta non si innamora, la sua passione per il lavoro e ciò che significherebbe per lei non è meno impetuosa del sentimento che Jane Eyre prova per Mr. Rochester.
Il mio posto è qui non è solamente un film di rivendicazioni o un romanzo di formazione: è un film di attori, in primis Ludovica Martino (Marta) e Marco Leonardi (Lorenzo), espressivi anche nei silenzi e nell'apparente imperturbabilità che nasconde un rischio di implosione. E se il secondo rende i suoi occhi lo specchio di un cuore che sanguina e incarna la dolcezza del film, la Martino sa essere intensa e molto a fuoco, e lascia che il suo viso diventi un caleidoscopio di emozioni. Sappiamo che tra Ludovica e Marco è nata una bella amicizia e una forte intesa professionale. Di certo hanno entrambe giovato al film, che neppure per un nanosecondo cede alla retorica, alla noia o alla lacrima facile.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali