Il giardino di limoni - recensione del film diretto da Eran Riklis
Già visto a festival internazionali come Berlino e, di recente, Torino, Il giardino dei limoni tratta la scottante questione della convivenza tra israeliani e palestinesi attraverso una questione semplice, privata ma dal forte impatto simbolico.
Il giardino di limoni - la recensione
Il neo ministro della difesa d’Israele si trasferisce in una nuova casa. Per ragioni di sicurezza, i servizi segreti decidono di far estirpare tutti i limoni di un frutteto confinante. La vicina da casa palestinese giustamente non ci sta a vedersi distruggere le piante appartenute da anni alla sua famiglia, e decide di portare il suo caso di fronte alla corte suprema israeliana, con l’aiuto di un giovane avvocato.
Per raccontare il dramma della convivenza (im)possibile tra israeliani e palestinesi, il regista Eran Riklis non sceglie una storia di coloni o di zone di confine ad alta tensione, ma una vicenda semplice e privatissima che diventa presto un caso politico e mediatico. Il giardino di limoni stigmatizza le prepotenze e le assurde e arroganti pretese di Israele, mette alla berlina il lavarsene le mani di alcuni e l'arroccamento di altri, ma ne ha anche per le ambiguità dei palestinesi: il rischio, non sempre evitato, è quello di un cerchiobbottismo un po' d'accatto, ma certe scelte sono comunque efficaci nella loro rilevanza simbolica.
Ma quello di Riklis è un film principalmente al femminile, tutto giocato sul confronto a distanza tra la palestinese Salma (una bravissima Hiam Abbass, vista di recente anche ne L'ospite inatteso) e Mira, la moglie del ministro: due donne che si scrutano a distanza, che imparano a rispettarsi, ma che non riusciranno mai – per orgoglio o necessità – ad incontrarsi e a parlare davvero. Mentre gli uomini, a confrontarsi e a capirsi, non ci provano nemmeno, troppo presi dai loro egoismi e dai loro giochi di potere.
Nel finale Riklis mostra con uno sberleffo crudele l’inutilità di certe pretese e l’apparente impossibilità di una conciliazione, ma lascia che nel terreno rimangano delle radici che potrebbero far crescere un nuovo modo di parlarsi e capirsi. Un finale che lascia in bocca un gusto agro proprio come se si fosse addentato un limone, ma non del tutto privo di quella dolcezza che si chiama speranza.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival