Hot Milk: la recensione del film con Emma Mackey in concorso alla Berlinale

14 febbraio 2025
1.5 di 5

Una madre invalida in cerca di una cura e una figlia che si occupa di lei a tempo pieno nella piena estate spagnola. Ultima possibilità per trovare un guaritore ma anche per risolvere la tensione nel loro rapporto morboso e sinergico. La recensione di Mauro Donzelli del film presentato in concorso alla Berlinale 2025.

Hot Milk: la recensione del film con Emma Mackey in concorso alla Berlinale

Britannici scottati dal sole in vacanza in Spagna, nel pieno dell’estate. Una premessa che genera inquietudine per la deriva notturna di cattive abitudini, oltre all’evidente indotto economico, ma che declinato al cinema può essere altrettanto dannoso, coinvolgendo spesso annoiati isolani. Hot Milk, adattamento del romanzo Come l’acqua che spezza la polvere di Deborah Levy, opera prima della drammaturga e sceneggiatrice di Ida e Disobedience, Rebecca Lenkiewicz, rientra in questa pericolosa categoria, delineata con evidente amore di provocazione, per cui ci perdonerete. È vero però che la reazione che suscita questa pastrocchiata vicenda è una certa irritazione diffusa, crescente con il dissiparsi di quella patina intrigante che all’inizio sembrava promettere qualcosa.

Proseguendo nella classificazione imperfetta, queste storie raccontano una sospensione della quotidianità da parte di qualche anglosassone in cerca di una guarigione, più spesso spirituale, in un territorio approcciato da colonialisti al primo sbarco in un luogo selvaggio eppure antropologicamente capace di regalare una qualche forma di miracolosa e ancestrale saggezza. Parlando di Hot Milk, poi, la guarigione è anche letterale, visto che le protagoniste sono una donna, Rose (Fiona Shaw), costretta su una sedia a rotelle per una malattia nebulosa che non le permette di muovere le gambe e la figlia, Sofia (Emma Mackey), “eterna studentessa”, ovviamente di antropologia, come la definisce l’a dir poco arcigna madre. Trascorrono del tempo per lo più a casa, a pochi passi dal mare, con qualche sortita in spiaggia senza troppa convinzione. La tensione è alta, il rapporto di dipendenza reciproco morboso, la figlia si dedica all’accudimento della madre, ma rimane il dubbio che la sua menomazione sia in qualche modo volontaria.

Si trovano in Almeria per un ultimo tentativo, il consulto con un guaritore, tale Gómez (Vincent Perez), non meglio precisato e dai metodi in apparenza poco scientifici che l’accetta in cura con qualche speranza. Nel frattempo Sofia trova sfogo alle sue pulsioni di libertà represse dal ruolo così impegnativo in casa e inizia un’appassionata relazione con una viaggiatrice hippie berlinese con una casa in collina, che appare inopinatamente a cavallo sulla spiaggia, interpretata da Vicky Krieps. È l’opposto di Sofia, indipendente, sorridente e incapace di tollerare limiti alla sua voglia di vivere e amare. Sembra capitata per caso in questo strambo film, in cui fino a che il non detto trionfa potrebbe anche incuriosire, ma quando si accumulano le deviazioni sul passato, le banalizzazioni sul presente e una pretestuosità di fondo incapace di appassionare a questa evidente relazione malsana prevale l’insoddisfazione e si disperde ogni empatia nei confronti delle protagoniste.

Il risentimento e l’amarezza sono tratti evidente del rapporto fra madre e figlia, ma è come queste pulsione esplodono, generando più confusione che altro a non convincere nel lavoro di questa storia di catarsi. Sospesa fra una distruzione sbrigativa e un tentativo goffo di far prevalere la forza del legame biologico, si concede anche una poco comprensibile digressione in un altro luogo “folkloristico e mediterraneo”, la Grecia da cui proviene il padre e marito delle due, fuggito una ventina d’anni prima. Il tutto prima di una conclusione che lascia a dir poco insoddisfatti all’interno del sacro patto fra autrice/autore e spettatore/spettatrice.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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