Harvest: la recensione del film di Athina Rachel Tsangari in concorso a Venezia
Lo sconvolgimento in un villaggio in mezzo alla natura in un'epoca non specificata porta alla perdita del senso di comunità. Harvest è un film della regista greca Athina Rachel Tsangari con Caleb Landry Jones. La recensione di Mauro Donzelli del film in concorso al Festival di Venezia.
È una comunità agricola sospesa nel tempo, ancorata alla dimensione pre industriale di campi, fiumi, fango e fattorie. Una fotografia del passaggio epocale delle cosiddette enclosures, quando vennero recintati i campi, superando la gestione condivisa rimasta tradizionale, specie in Scozia e nel nord Inghilterra per sedoli, e di fatto si innescò la rivoluzione capitalista che avrebbe portato alla crisi finale di realtà cresciute sulla collettivizzazione del terreno agricolo coltivabile o utilizzabile per il pascolo. Nonostante questo, la visione della regista, la greca Athina Rachel Tsangari, per la prima volta alla regia di un film in inglese, si prende le libertà di immaginare abiti, dinamiche, composizioni etniche e sociali che non siamo costrette in quel tempo specifico, ma veleggia con il libertà in una storia in cui la comunione di un gruppo di persone, con i loro alti e bassi, si trasformò nella bramosia di possesso e sfruttamento da parte di alcuni, pronti a prevalere in direzione di quella divisione sociale sempre più rigida che avrebbe poi caratterizzato nel futuro la società britannica.
Sette giorni intensi e allucinati sono quelli in cui Harvest - raccolto - ci conduce da un tale Walter Thirsk, una via di mezzo fra un mezzo bandito western e un sopravvissuto da Mad Max, e dal suo amico d’infanzia Charles Kent, ormai diventato signore del posto. Ma non è dall’interno che arriva la scintilla che sconvolge il loro ciclo naturale fatto di stagioni e raccolti, coltivazioni e gelate. Arriva dall'esterno, con le fattezze, allo stesso tempo comode e sbrigative oltre che un po' demagogiche, della modernità. Ma diciamo pure una vera e sana pulsione capitalista. La vicenda è tratta da un romanzo di Jim Crace sul momento “in cui perdemmo la terra”. La regista sembra domandarsi dove eravamo quando tutto questo, seppur secoli fa, accadeva?
I mappatori sono i principali nemici esterni che fanno irruzione, e sono coloro i quali delimitano appunto i terreni e li rendono privati, in un film in costante movimento, iper cinetico passaggio di generazioni, di vita e morte, in un racconto che nella sua sospensione porta in dote anche una certa fatica nel suo essere seguito, sembra girare senza una vera direzione, propone una tesi e un destino che pare chiaro e segnato fin da (quasi) subito, mentre il rumore dei carri e degli animali sono solo disturbi di fondo. Ripetitivo e affascinante, richiede attenzione e pazienza allo spettatore. In comune con molte storie recenti rimane la denuncia di un sistema patriarcale e ormai bollito, incapace di garantire sviluppo soddisfacente della vita dei sudditi e un ricambio inevitabile. Fra processi nei confronti di ribelli o eterodossi, con tanto della sempreverde irruzione, anche in un’epoca non epoca, di una bell’accusa di stregoneria.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito