Ghostbusters: recensione del reboot della saga diretto da Paul Feig
Risate, spaventi, omaggi al passato e alla fine un senso tutto questo ce l'ha.
Considerando che l'idea non sia originale e si senta odore di lucro sul celebre fantasmino cerchiato, è comprensibile che aleggi una certa irritazione capace di cementare un pregiudizio al suo portatore. Quando un film supera la prova del tempo distanziando gli scarti generazionali, diventa qualcosa di sacrale che appartiene a tutti, non in quanto collettività ma individualmente. Quel logo ha un significato preciso e personale per chi negli anni 80 lo vide e lo visse. Perché erano gli anni 80, il decennio più rimpianto, perché era una commedia ambiziosa e di grandi proporzioni, perché elevava la comicità televisiva dei protagonisti all’élite dell’arte cinematografica, perché l'uomo marshmallow è molto più di un grottesco nemico, è l’incubo che ci attanaglia ogni giorno, è il prodotto delle nostre paure e insicurezze.
Nel 1984 Ghostbusters lasciò un segno e segnò un lascito. È uno di quei pochi film che vanno oltre la visione e diventano esperienza. Paul Feig ha imboccato l’unica strada possibile quando la Sony gli ha proposto di occuparsi della nuova versione degli acchiappafantasmi: con la stessa idea di partenza fare qualcosa di completamente nuovo. È sbagliato affiancare il Ghostbusters del 2016 al Ghostbusters del 1984, non c’è ragione di fare parallelismi. Anche se verrebbe spontaneo, per carità. Quel film è ineguagliabile, Feig lo sa e infatti non si impegola in rifacimenti, men che meno in sequel. Il suo Ghostbusters è una rilettura aggiornata ai tempi di internet, una nuova origin story consapevole di non poter sovvertire nulla e di presentarsi a un nuovo pubblico già ingolfato di immagini in CGI.
Quattro protagoniste femminili sono un valido nuovo inizio, specialmente se attrici comiche che per tempi e intesa possano diventare il cuore della commedia. Le vediamo dare la caccia a fantastiche creature a metà tra il fascinoso e il mostruoso, ma prima le vediamo soffrire perché da donne insoddisfatte professionalmente lottano per diventare un affiatato gruppo di lavoro. Sulle quattro spicca a sorpresa Kate McKinnon che meglio caratterizza il delirio scientifico del suo personaggio, nonostante Melissa McCarthy, Kristen Wiig e Leslie Jones portino tutto il loro background del Saturday Night Live. Una sostanziale differenza per alcuni potrà farla l’edizione italiana rispetto a quella originale, non necessariamente in meglio, per la manifesta difficoltà di adattare quel tipo di umorismo. Anche la scelta di rovesciare un cliché sessista inserendo un segretario biondo e stupido giova sia al film, sia al suo interprete Chris Hemsworth che dà un’immagine di sé amabilmente autoironica.
Al primo impatto Ghostbusters sembra quello che per molti resterà, un filmone estivo nella media della produzione americana. Perché ci sono buoni e cattivi, un’invasione che non è aliena ma spettrale, una New York sull’orlo dell’apocalisse in un tripudio di effetti speciali. Roba già vista, dunque. Eppure, anche senza cercare le attenuanti del caso affermando che poteva sbagliare molto di più, si coglie l’intelligenza e la sensibilità dietro un progetto per cui c’erano più detrattori che sostenitori. Paul Feig aveva già dato nuova linfa a consumati generi cinematografici con Corpi da reato e Spy. Qui con tenacia mantiene intatta una vecchia idea per crearci intorno nuovo ectoplasma che possa far ridere, leggermente spaventare e omaggiare il passato. I suoi buoni intenti diventano buone esecuzioni, ed è sufficiente la scena della creazione del logo per riconoscergli un talento nel maneggiare con il giusto spirito del materiale delicato. Ma soprattutto è bravo nel sancire una cosa: non tutti i reboot sono il male. Questa operazione alla fine un senso poteva averlo e l’ha avuto, come testimoniano anche i cammei di Bill Murray, Dan Aykroyd, Ernie Hudson e Sigourney Weaver.
- Giornalista cinematografico
- Copywriter e autore di format TV/Web