Frozen 2 - Il segreto di Arendelle, la nostra recensione del seguito targato Disney
Impresa ardua riprendere in mano un film così iconico: come ne sono usciti Jennifer Lee e Chris Buck?
Ad Arendelle, la famiglia allargata composta da Anna, Elsa, Kristoff, Sven e Olaf traballa: Elsa continua a captare un canto misterioso che proviene da una foresta lontana e avvolta dalla nebbia. La regina avverte l'impulso di indagare, intuendo che possa avere un legame con le proprie origini: quando una minaccia verterà su Arendelle, i nostri eroi accetteranno di accompagnarla in un viaggio che cambierà molte cose.
Sei anni fa il primo Frozen, diretto come questo Frozen 2 da Chris Buck e Jennifer Lee (autrice sempre della sceneggiatura), riuscì a cambiare la percezione della fiaba in un classico Disney. Ironicamente, la necessità di realizzarne un sequel per cavalcarne il gigantesco successo commerciale innesta una seconda rivoluzione. Più forzata della precedente, perché nata dal business, ma non meno interessante nel piegare le consuetudini della fiaba: per andare avanti, la saga deve raccontare cosa succede dopo un “vissero felici e contenti”. Per riuscirci, così come Frozen aveva chiesto alle sue principesse di mostrare più maturità, questo secondo capitolo deve spingerle a una crescita ulteriore.
Per una metà del lungometraggio, bisogna ammettere che la strada è in salita: il “segreto di Arendelle” deve ruotare su un lore che dev'essere giocoforza espanso, e quella espansione passa attraverso qualche passaggio troppo espositivo e spiegone, procedendo per accumulo. La volontà poi di costruire la narrazione su un mistero sospende per troppo tempo diversi dettagli della trama, tanto che la direzione dei personaggi stessi nella storia sembra poco a fuoco. Sulle prime il gruppetto regge solo grazie alla familiarità che il pubblico ha costruito con i personaggi, ma non sembra che i risultati vadano molto oltre i poco ispirati Frozen Fever (corto del 2015) o Frozen - Le avventure di Olaf (lo special natalizio del 2017).
A mano a mano che la nebbia si dirada, tuttavia, le tessere del puzzle cominciano a combaciare, e fa assai piacere che l'anima del racconto si regga ancora su messaggi e concetti solidi, sostenuti da un crescendo piuttosto spettacolare. E' interessante (e garantisce immedesimazione) l'eterno dilemma della famiglia: bilanciare l'affetto per un parente con la libertà che rivendica per se stesso. Da questo punto di vista, anche se il motore narrativo rimane Elsa, alla quale sono dedicate ancora una volta la migliore canzone ("Nell'ignoto") e le sequenze più visivamente ispirate, è altrettanto intrigante il percorso di Anna: di nuovo a lei viene chiesto un atto di maturità, assai difficile da digerire, ma che culmina con una presa di coscienza istruttiva. Per lei e per tutti noi è necessario saper mettere in discussione la tradizione, quando i tempi e le nostre consapevolezze cambiano, avendo il coraggio di rinunciare a simboli che possono svuotarsi di senso. Si potrebbe trattare di simboli che hanno un valore ben diverso per qualcun altro: è l'empatia che porta a evitare razzismo e strategia del terrore. Chi vedrà capirà, concedeteci la vaghezza per evitare spoiler.
Anna ed Elsa devono trasformarsi da sorelle in donne, senza perdere il proprio legame, abbracciando in due maniere diverse quell'autodefinizione femminista che ha fatto tanto amare (o detestare) il primo Frozen. Olaf e Kristoff fungeranno da cassa di risonanza di questo percorso, lo stesso ruolo che un bambino o un compagno affettuosi hanno al fianco di una madre o di una compagna. E' in questo affetto tangibile per i personaggi, in questa volontà di vederli crescere, che Lee & Buck riescono, non senza fatica e le citate difficoltà, ad affrontare la vera sfida di un Frozen 2: costruire un senso artistico sulle fondamenta di una spudorata esigenza commerciale.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"