Fahrenheit 451: recensione del film con Michael B. Jordan e Michael Shannon presentato al Festival di Cannes 2018
Spunti interessanti che attualizzano il testo di Bradbury si perdono nel contesto di un film un po' approssimativo e facilone.
Non è che non abbia senso, rifare oggi Fahrenheit 451 (dove per “rifare” s’intende più un nuovo adattamento del libro di Ray Bradbury che un remake del celebre film che ne aveva tratto Francois Truffaut). E Ramin Bahrani, che forse da sempre è meglio come sceneggiatore che come regista dei suoi stessi copioni, una chiave interessante per tornare a raccontare quella storia l’ha anche trovata. Non sconvolgente ma, assieme ad Amir Naderi, l’ha trovata.
Nel mondo di Fahrenheit 451 versione 2018, infatti, il futuro distopico che i protagonisti vivono è quello che è arrivato molti anni dopo una Seconda Guerra Civile americana (ciao, Joe Dante), scatenata dall’eccesso di opinioni che venivano gridate aprioristicamente su internet, in anni in cui esistevano ancora i giornali o i giornalisti, sì, ma dei loro articoli le persone leggevano solo i titoli. Vi fischiano per caso le orecchie?
E non basta, comunque. Perché quello che è successo dopo - la guerra ai libri e alla cultura e tutto il resto - non è stato un colpo di mano autoritario, ma la conseguenza del responso di alcuni algoritmi di intelligenze artificiali capaci di prevedere i desideri delle persone: persone che non ne potevano più dell’informazione e delle opinioni e di testi che li constringevano a fare i conti con domande scomode sulla realtà e la natura umana; desideri che sono degenerati fino al punto raccontato dal film.
Tutto questo, nel corso del Fahrenheit 451 di Bahrani, lo veniamo a sapere sotto forma di spiegoni camuffati da dialoghi, così da non risultare troppo sfacciati, seguendo il Montag di un poco espressivo Michael B. Jordan, il Beatty di un Michael Shannon bravo ma chiuso in un personaggio troppo squadrato e approssimato, e la loro lotta contro una resistenza che cerca di sabotare i piani del potere, e restituire secoli di letteratura, musica e cultura alla coscienza umana, contrapponendo implicitamente l’analogico al digitale ma senza disdegnare la tecnologia tout court.
Dialoghi che magari azzeccano anche il tentativo di catturare l’esprit du temps, quando ad esempio Montag e Beatty si confrontano all’interno di un deposito abusivo di libri, e il secondo spiega al primo che è molto più comodo fare senza, perché accadeva che “Huckleberry Finn” offendesse i neri, o “Lolita” ed Henry Miller le femministe, e via di questo passo: e tutto questo, nell’era della suscettibilità assoluta ed esagerata, è anche divertente da ascoltare.
Peccato però che questa manciata di idee, lanciate da Bahrani sul tavolo come fiches, e sparpagliate lungo il racconto, non bastino a tenere su la baracca né dal punto di vista dell’impianto teorico, che viene scarsamente approfondito (e anzi diventa confuso e un po' ridicolo, con resistenti che si chiamano come i libri che hanno memorizzato), né da quello del thriller d’azione: che sotto sotto, ma nemmeno troppo, è l’unica cosa che interessa davvero a questo film targato HBO, e quindi pensato per una fruizione casalinga e televisiva.
La stilizzazione formale cercata dal regista (tra i neon alla Refn del mondo nei “Nativi” e le luci gialle vagamente rétro delle “Anguille” della resistenza) non ottiene i risultati sperati, e Bahrani non è decisamente a suo agio quando deve portare avanti scene più ricche di azione e dinamismo: e il fatto che dal punto di vista narrativo i conti ogni tanto non tornino, fa pensare che qualche problemino col girato, al montaggio possa essere emerso.
Questo Fahrenheit 451 - tra una corsa e una ripresa a effetto, tra una citazione di Kafka e una di Dostoevskij; tra un pezzo di pellicola di Cantando sotto la pioggia e degli schermi modernissimi dove impera una nuova Internet chiamata The 9, un grande fratello che incita alla delazione; tra un pugno e un bacio (c’è anche Sofia Boutella, resistente di cui si invaghisce Montag) - si dimentica di dare risposte a molti degli interrogativi che solleva.
Il che andrebbe anche bene, magari: non fosse che non fa nemmeno venire voglia allo spettatore di sforzarsi per trovarsele da solo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival