Fahrenheit 11/9: la recensione del documentario di Michael Moore
In anteprima alla Festa del cinema di Roma il film del geniale cineasta sugli anni della presidenza Trump, che sarà in sala come evento speciale solo il 22, 23 e 24 ottobre.
Il decimo lungometraggio documentario di Michael Moore ha poco spazio per l'ironia, che si affaccia sporadicamente qua e là durante la visione. E' soprattutto un doloroso grido di allarme, un SOS che colpisce al cuore, nato da una vera urgenza. In gioco c'è la democrazia a cui l'America ha sempre teso ma da cui si allontana sempre più, e con lei il futuro del mondo libero, incluso il nostro Paese, che con la storia americana recente ha tanti, troppi punti di conttatto. Meno strutturato e più ondivago degli altri lavori del cineasta di Flint, Fahrenheit 11/9 è anche il suo film più pessimista (alcuni direbbero realista), nonostante si chiuda su una nota di speranza, sui giovani, con un primo piano sugli occhi pieni di lacrime della ragazza che con un potentissimo atto d'accusa ricorda su un palco di fronte a migliaia di persone i suoi compagni di scuola di Parkland, sterminati da un loro coetaneo, grazie all'estrema facilità di procurarsi armi d'assalto, a causa di una politica volta a compiacere la NRA che finanzia il partito repubblicano.
Ma sbaglierebbe chi pensasse che si tratta di un film semplicemente anti-Trump. Moore non perde nemmeno tempo a raccontarne la prima, sfortunata campagna presidenziale del 2000 (fotografata alla perfezione da Garry B. Trudeau nella sua strip “Doonesbury”) o i suoi fallimenti economici e le accuse di violenza sessuale contro di lui (anzi, insiste forse solo un po' troppo sulle sue tendenze incestuose verso Ivanka). Ma tutto questo è appena accennato, non gli interessa, perché è chiaro che il Presidente è solo l'espressione di un potere marcio, l'uomo “giusto” al momento giusto, un narcisista con tendenze dittatoriali a cui è stata spianata la strada da un sistema corrotto, di cui sono corresponsabili repubblicani e democratici allo stesso modo. Anzi, Moore va giù duro specialmente coi secondi, a partire dalla presidenza Clinton, che nella sua ansia di compiacere banche e poteri forti (ricorda qualcosa o qualcuno?) è sceso a compromessi che hanno reso di fatto il suo schieramento molto simile a quello nemico, allontanando la gente dal voto.
L'apice è stato raggiunto nella campagna elettorale che ha portato all'elezione di Trump, con le false dichiarazioni di voto dei collegi democratici che ignorando la scelta della base hanno eletto Hillary Rodham Clinton come candidata invece del vincitore Bernie Sanders. Ed è triste constatare che mentre qualcuno accusa tutta la stampa non allineata di diffondere "fake news" coloro che dovrebbero essere diversi si rendono colpevoli di falsificare la realtà a loro stesso danno. Certo, Donald Trump esce dal film come quello che è, un manipolatore diabolico, un uomo che sa usare i media e solleticare la pancia dei suoi elettori, e che fin dalla campagna elettorale ha detto e fatto cose impensabili, ma siccome le ha dette e fatte in pubblico, è stato visto con indulgenza e sottovalutato soprattutto dai media. La sua sincerità, in confronto con l'ipocrisia e la reticenza dei politici, gli ha conquistato alla fine, se non la maggioranza dei voti, un solido appoggio popolare.
L'uomo forte e sfrontato che legittima razzismo e violenza, dando voce e potere alla frustrazione di una larga fascia della popolazione non istruita e piena di rancore, è un modello che nella storia si è sempre riproposto, e forse il paragone della nascita della Germania di Hitler dalle rovine della colta e prospera Repubblica di Weimar, su cui Moore insiste, per quanto accurato, è perfino un po' scontato. Ma i film di Michael Moore, che ha il dono dei grandi divulgatori, sono come dei manuali di sopravvivenza, delle lezioni di educazione civica, comprensibili e diretti, forse non condivisibili da tutti ma facili da comprendere. C'è tanto in questo disperato messaggio nella bottiglia, forse perfino troppo, anche se tutto è funzionale alla costruzione di un quadro agghiacciante del nostro presente e del mondo in cui viviamo.
Un'ampia parte del film - quella che con più forza colpisce al cuore e suscita le nostre emozioni - è il consapevole avvelenamento di piombo della popolazione di colore e di tutti i bambini di Flint, la città natale del cineasta, ormai ridotta allo stato di un luogo colpito da una catastrofe naturale, con conseguenze irreversibili. A condannare a morte o a gravi malattie tanti innocenti è stata al solito l'avidità di guadagno e la colpa, per cui non ha pagato e non pagherà, del governatore del Michigan Rick Snyder, che per compiacere i suoi ricchi elettori nell'industria ha fatto costruire un nuovo e inutile acquedotto, prendendo l'acqua potabile non più dalle acque pulite del lago Huron, ma da un fiume inquinatissimo, nascondendo in seguito i risultati delle analisi quando la concentrazione di piombo nel sangue delle ignare vittime superava il valore di 3.5 considerato tollerabile dall'uomo e arrivava perfino a 14. Un crimine vero e proprio a cui si è aggiunta la beffa di una visita del presidente Obama, atteso come un Messia vendicatore dai cittadini, protagonista di una delle scene più imbarazzanti e incredibili che abbiamo mai visto compiere da un uomo di potere (e ne abbiamo viste tante).
A tratti anche Michael Moore sembra scoraggiato, addirittura vicino alla rassegnazione, anche se il crescere e il diffondersi in America di manifestazioni oceaniche e di movimenti spontanei e popolari – insegnanti, studenti, donne – sembra riequilibrare un po' la cupezza dello scenario generale. Certo è straziante vedere l'ultimo, anziano giudice ancora in vita del processo di Norimberga commuoversi quando vede ripetersi nella nazione che lo ha accolto i crimini per cui ha mandato gerarchi ed esecutori nazisti a morte. La storia si ripete o sta per farlo, magari sotto altre spoglie, ma i sintomi ci sono tutti e la soluzione, forse, è solo che la gente che non vota (che in America è la stragrande maggioranza) torni a farsi sentire, a credere che la propria voce possa contare. Comunque la si pensi, Fahrenheit 11/9 è un film da vedere e su cui riflettere a lungo, una testimonianza importante che solo un uomo di coscienza come Michael Moore poteva darci.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità