Ender's Game - la recensione del film

29 ottobre 2013
3.5 di 5
6

Tratto dall'omonimo romanzo del 1985, il film di Gavin Hood mantiene tutta la profondità etica del libro appongiando la storia sulle spalle del giovane e magnifico protagonista Asa Butterfield

Ender's Game - la recensione del film

Sono pre-adolescenti o già adolescenti, piccoli eroi in grado di spostare destini più grandi di loro, protagonisti di storie tratte da libri di successo. Questa corrente abbraccia il magico mondo del fantastico ramificato tra i generi classici science-fiction, horror, avventura, thriller e i sottogeneri di ambientazione futuristica, medievale, contemporanea o alternativo-parallela. Ciò che resta invariata per tutte queste produzioni cinematografiche è la connotazione epica di ogni storia. L’epicità punta dritta al cuore di quel target di pubblico che possa galvanizzarsi, spettatori ancora sufficientemente giovani che riescano ad immedesimarsi facilmente, che ancora sentano di poter deviare se non spostare quel destino che si insinua con maggiore frequenza da una certa età in poi. Sono sempre loro, gli adolescenti. Poi succede che anche un adulto si immedesimi, segno che il film in quel caso sia stato in grado di superare se stesso.

Le premesse di Ender’s Game sono tutt’altro che originali. C’è un nemico che minaccia la Terra (gli alieni), ci sono i prescelti con il compito di salvare la razza umana (i giovani protagonisti), c’è una scuola di addestramento per raggiungere il suddetto scopo (rivalità e rivalsa). Sapendo però che l’omonimo romanzo di Orson Scott Card è stato pubblicato nel 1985, l’ottica cambia e si comprende meglio quale influenza abbia avuto Il gioco di Ender su tutto ciò che è stato letto e visto negli ultimi quindici anni, quale ispirazione possano avere avuto autori come J.K. Rowling, Suzanne Collins, Stephenie Meyer, Christopher Paolini, Rick Riordan o Cassandra Clare. Ma il valore del libro, e dunque del film che l’ha mantenuto, è quello di essere incredibilmente maturo, profondo e responsabile.

I protagonisti delle pagine scritte hanno poco meno di dieci anni, intorno ai quindici quelli del film. L’adattamento della sceneggiatura di Gavin Hood (che è pur sempre un Premio Oscar per Il suo nome è Tsotsi ) non perde i dilemmi interiori del giovane soldato, combattuto tra il rispetto e l’avversione per l’autorità, l’affetto e il terrore nei confronti di un fratello violento, l’ambiguità rispetto alla posizione della sorella. Su tutto questo, il peso dell’etica sulle scelte che deve compiere sapendo bene in cuor suo di essere diverso dagli altri e di avere il destino segnato.

Forte di questa solidità della storia, si percepisce la distensione con cui lo stesso Hood diriga il film. L’energia dello script è restituita con altrettanta maturità dal sedicenne Asa Butterfield, magnifico interprete di Ender Wiggin e portatore di tutto il peso morale della storia. Harrison Ford appare in una percentuale di presenza significativa interpretando il mentore e Colonnello Graff, con un’interpretazione di servizio senza infamia e senza lode. Anche per la natura mistica e misteriosa del personaggio, invece, Ben Kingsley risulta essere molto più incisivo nelle poche scene del suo ruolo. La prova della riuscita del film arriva a mente fredda il giorno dopo, rendendosi conto di aver visto un film ambientato nel futuro e nello spazio e di quanto questo non abbia la minima importanza. Quando la storia vale, il contesto diventa un semplice mezzo di trasporto.





  • Giornalista cinematografico
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