Emily: recensione del film su Emily Brontë, l'autrice di Cime tempestose

15 giugno 2023
3.5 di 5
10

L'attrice Frances O'Connor esordisce dietro alla macchina da presa con un film biografico su Emily Brontë, che scrisse un unico mirabile romanzo: Cime tempestose. La regista immagina cosa portò la giovane scrittrice a raccontare la storia di un amore sofferto. La recensione di Carola Proto

Emily: recensione del film su Emily Brontë, l'autrice di Cime tempestose

Circa trent'anni separano la scrittura di Mansfield Park, terzo libro di Jane Austen, dal primo e unico romanzo di Emily Brontë, quel Cime tempestose che forse è l’opera più bella, o almeno più struggente e intensa dell'Ottocento britannico. Figli di un'epoca diversa della storia del Regno Unito - la Reggenza da una parte e l'era vittoriana dall'altra - possono essere messi in relazione perché l'attrice protagonista dell'adattamento del 1999 di Mansfield Park, e cioè Frances O'Connor, ha voluto dirigere non una trasposizione di Cime tempestose ma un biopic sulla sua autrice, definita da molti, a torto, "la sfinge della letteratura inglese" e rimasta fino a oggi una figura sfuggente. Inoltre, la regista di Emily ha voluto mettere nel personaggio della sorella di Charlotte e Anne Brontë anche un po’ del proprio vissuto, oltre a qualcosa di Cime tempestose, a cominciare dalla brughiera dello Yorkshire e da una passionalità che, più in là nel diciannovesimo secolo, qualcuno avrebbe ribattezzato Sturm und drang.

Emily, infine, ci fa pensare all’autrice di Emma e Orgoglio e pregiudizio perché ricorda un po’ il racconto per immagini dell’esistenza della Austen che aveva come interprete principale Anne Hathaway, quel Becoming Jane che, come Emily, individua in una profonda delusione sentimentale l'origine di un libro che parla di un amore totalizzante

Tornando all’identificazione della O’Connor con colei che inventò Heathcliff e Catherine, la vicinanza fra le due donne permette al film di rendere giustizia a una di quelle creature femminili contemporanee che si sentono libere, spregiudicate e indipendenti e nello stesso tempo sono sensibili, empatiche e autoindulgenti. Non banalizzeremo dicendo che l'eroica signorina di buona famiglia con il volto di Emma Mackey è un simbolo di empowerment del gentil sesso, ma solo che esiste un nesso fra l'artista di metà Ottocento e una donna dei giorni nostri dal fine intelletto. Cambia la quotidianità, e certamente nell'800 i modi erano più cavallereschi ma la mentalità generale meno aperta, tuttavia uguale era il desiderio delle persone di ingegno di trovare un posto nel mondo. 

La modernità dell’opera prima di Frances O'Connor sta poi nella complessità della protagonista femminile, che abbraccia serenamente una cosa e il suo contrario e che forse non cerca un’anima gemella ma capisce che solo un comune sentire potrà avvicinarla a un uomo. Certo, il curato William Weightman che le fa battere il cuore finisce per rivelarsi stupido, pavido ed egoista, ma in fondo la vera love-story del film è il legame che unisce Emily a suo fratello Branwell, un uomo debole ed eccessivamente sensibile, ma profondo e nobile. Nel costruire il rapporto fra i due personaggi, la regista pesca ancora una volta dal calderone di Cime Tempestose, prendendo ispirazione dall’attaccamento di Heathcliff a Catherine e di Catherine a Heathcliff. La stessa Emily ha qualcosa di Heathcliff, anche se è più malinconica.

Ma questa malinconia, viene da pensare, non confina con la depressione, male del nostro secolo così come del precedente? A noi pare di sì, e si ha la sensazione di avvertire un bisogno, da parte della regista e sceneggiatrice, di mettersi sempre più in ascolto per cogliere le sfumature più sottili di un disagio o di un sentimento, che nel caso delle sorelle Brontë trova piena espressione e consolazione nella prosa e nella poesia. Del resto, fin dalla notte dei tempi, il talento artistico ha spesso coinciso con una latente irrequietezza, con il sentirsi un pesce fuor d'acqua in mezzo agli uomini ma un tutt'uno con la terra, l'erba, gli alberi, in una parola con la natura.

Un altro grande merito di Emily è la rinuncia quasi totale ai cliché delle trasposizioni dei grandi romanzi inglesi dell'epoca. Non c'è il solito profluvio di candele, cuffiette, carrozze e proposte di matrimonio. Ai tableau vivant che sono il risultato di una macchina da presa immobile in mezzo ad arredi sontuosi, si oppone qui un sostanziale dinamismo, che diventa movimento quasi vorticoso quando la O’Connor decide di passare alla camera a mano. La stessa fotografia non è patinata, non somiglia a una miniatura con le sue aggraziate figurine, ma è realistica e non chiama in causa soltanto la vista. E infatti sembra di sentirla sulle mani l’erba bagnata, e perfino di avvertire il vento che sferza le guance oppure il debole calore del sole che di tanto in tanto fa capolino dalle nuvole.

I puristi di Emily Brontë diranno che la regista si è presa troppe licenze poetiche nel costruire la sua protagonista. Potrà anche essere vero, ma che senso ha fare un film pressoché identico a un libro? In questo senso, il tradimento non è forse più artistico? E comunque non si tratta di un tradimento dello spirito di un’opera, o di un pretesto per applicare le categorie del #MeeToo o del politicamente corretto a personaggi del passato, come succede con il color-blind casting. No, Emily sembra aver compreso la poetica di una grandissima scrittrice e il suo mondo interiore, che attraverso il potente linguaggio del cinema può arrivare fino a noi.



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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