Doctor Sleep - la recensione del film tratto dal romanzo sequel di Shining

30 ottobre 2019
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In anteprima a Lucca Comics & Games l'intelligente operazione di Mike Flanagan, che rende da un lato giustizia a Stephen King ma dall'altro conforta gli amanti del film di Kubrick.

Doctor Sleep - la recensione del film tratto dal romanzo sequel di Shining

Per una volta, nell'apprezzamento dell'intelligente operazione messa in atto da Mike Flanagan con Doctor Sleep, ci troviamo in linea con la critica americana, e a ragion veduta. Perché, lungi dal farsi intimidire da un romanzo non del tutto convincente, pieno di digressioni e momenti deboli, o dai paragoni con lo Shining di Stanley Kubrick, Flanagan agisce da vero demiurgo manipolando i materiali a sua disposizione secondo una visione personale e costruendo un film dalla struttura circolare che dà a Cesare quel che è di Cesare, con buona pace di Stephen King e del suo odio per l'adattamento kubrickiano, pur senza mancare di rispetto all'autore, che infatti, obtorto collo, lo ha lodato (sia pure con minor entusiasmo di quello espresso per Andy Muschietti), definendolo un ottimo narratore. Non è un caso se Flanagan – che scrive, dirige e monta i suoi film – ha creato una nuova narrazione nel tentativo di superare la contrapposizione tra libro e film, in una conciliazione che, pur consapevole delle differenze strutturali tra i due media, riconosce a entrambi la potenza di creatori di immaginario.

Da questo rischioso incontro tra i mondi creati da due autori geniali, nasce così un'opera audace e originale che ripesca gli elementi fondamentali di entrambi per diventare, alla fine, anche una riflessione metaletteraria e metafilmica sul tempo trascorso e sulla persistenza nella nostra mente delle immagini, simili ai fantasmi che Danny vede da piccolo e continua a vedere da grande, quando smette di bere. A King, Flanagan rende giustizia restituendogli una parte fondamentale di Shining che Kubrick aveva omesso (non vi diciamo quale, ma se avete letto il romanzo capirete quando la vedrete) e sottolineando il tema della dipendenza dall'alcool, tratto fondante dell'esperienza vissuta e della poetica dello scrittore del Maine. Sull'altro versante, ricostruisce letteralmente l'Overlook Hotel (le cui macerie appaiono nel sequel del romanzo) in un omaggio cinefilo a un film fondamentale, a cui è impossibile non fare riferimento.

Più del ritorno dei mostri e delle stanze, dei luoghi che riprendono vita e della riproduzione filologica di alcune sequenze con attori diversi (non sempre centrate ma in alcuni casi quasi indistinguibili dall'originale), colpisce la riproposta del tessuto sonoro del film di Kubrick, fin dai titoli di testa (il Dies Irae chiarisce subito dove ci troviamo), che entra sottopelle ed ha un vero potere evocativo. Se di nostalgia si tratta, è un sentimento appannato dal tempo, sbiadito come i ricordi che Dan ha tentato senza successo di cancellare. A volte scene che si sono svolte di giorno hanno un contraltare crepuscolare e notturno, come la ripresa in elicottero dell'auto in mezzo ai boschi, man mano che i personaggi si avvicinano al Male, o il labirinto visto dall'alto, che torna quello innevato in cui Danny ha lasciato le sue piccole orme e in cui si svolge la sfida tra la divoratrice di dolore Rosie the Hat (Rosie Cilindro nella versione italiana) e la potenza dello shining di Abra.

Come i migliori film del genere, il film porta con sé anche una metafora sociale e un'esplicita ironia, dando ai villain del film le caratteristiche di una comune hippy fuori tempo massimo, con Rosie che chiama i suoi avversari bifolchi, mentre tortura e distrugge le giovani speranze del futuro del Paese e il suo gruppo che gira in carovana, si accampa nelle foreste e si lamenta che la qualità del cibo, forse per colpa dell'inquinamento, dei cellulari o di Netflix è decisamente peggiorata. Nella versione di Flanagan risulta evidente anche il riferimento a un classico del cinema horror di fine anni Ottanta come Il buio si avvicina di Kathryn Bigelow. Ma questi divoratori di sofferenza e anime sono ancora più crudeli dei loro omologhi vampiri e Flanagan non a caso insiste senza paura nella sequenza – effficace, inattesa e molto forte per il cinema dell'orrore odierno, spesso senza dolore e sangue – della tortura della piccola vittima.

Dal 1980 sono passati 35 anni nel libro (39 a oggi) e la rivisitazione dei set kubrickiani è disseminata da tracce sbiadite, maschere svelate e disfacimento, impolverate presenze che Dan è costretto a evocare, riportando in vita il mostro insaziabile con i suoi abitanti eterni, come un vecchio proiezionista in visita in un cinema ormai abbandonato, convinto che qualcosa si possa ancora salvare. Affidata ad attori perfettamente in parte – tutti, ma in particolare la meravigliosa Rebecca Ferguson, l'intensissimo Ewan McGregor, la rivelazione Kiliegh Curran e l'iconico Carel Struycken nel ruolo di Nonno Flick - questa storia di un mondo pieno di vampiri che ci succhiano l'anima - pur con qualche trascurabile difetto - echeggia la realtà con accenti sinceri e dimostra la possibilità di un cinema dell'orrore adulto e che sappia parlare alla mente e al cuore di chi ama questo genere fondamentale, di cui Mike Flanagan si conferma uno degli alfieri più dotati.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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