Diabolik, la recensione: i Manetti in contropiede, all'inseguimento del "ghiaccio bollente"

14 dicembre 2021
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Preparatevi a essere sorpresi, e spiazzati, da questo Diabolik, perché probabilmente è l'opposto di quel che tutti si aspettavano. Filologicamente correttissimo nei confronti del fumetto, dell'Italia e del cinema degli anni Sessanta, Diabolik è un film ultra-cinefilo, rigorosissimo, tutto di testa.

Diabolik, la recensione: i Manetti in contropiede, all'inseguimento del "ghiaccio bollente"

Nella notte di Clerville il silenzio viene spezzato dall'allarme di una banca. Da una stretta strada, parte veloce una Jaguar E-Type, nera, e chi ci sia al volante lo sappiamo tutti. Spericolato, astuto e fornito di gadget, l'uomo nella Jaguar semina le volanti della polizia, e perfino la Citroën DS di colui che gli dà la caccia da una vita. L'ispettore Ginko si ritrova con un pugno di mosche in mano, e con il nome della sua nemesi, nonché titolo del film, a incombere alle sue spalle: Diabolik (che Mastandrea pronuncerà sempre, immancabilmente, adorabilmente, raddoppiando la "b").

Da quest'incipit dinamico, che poi è anche una delle poche scene realmente action del loro film, i Manetti ci catapultano in tutt'altro contesto - Bellair, la Courmayeur di Clerville - a conoscere la vera protagonista, l'Eva Kant di Miriam Leone, e a prendere dimestichezza col registro del loro film. Recitazione e dialoghi lasciano interdetti, sembrano piatti e teatrali, ma poi capisci: capisce che quella che i Manetti stanno proponendo è rigorosa filologia del fumetto. Le stesse frasi, gli stessi toni, le stesse espressioni nei personaggi.
Lo capisci anche perché la filologia, la precisione assoluta e impeccabile nella ricostruzione del mondo di Diabolik, dell'Italia e del cinema degli anni Sessanta (consulente in questo: l'espertone Luca Rea) la vedi anche nel modo di girare, nelle scenografie, negli arredi, nei costumi. Nella trama del film, che riprende quella di "L'arresto di Diabolik" (1963) e di "L'arresto di Diabolik - Il remake" (2012).

Quello che capisci, insomma, è che i Manetti han voluto prendere il pubblico il contropiede: loro, registi di solito coloratissimi, musicalissimi, poppissimi, tutti pancia e istinto, qui il pop l'hanno messo proprio nel cassetto per girare un film ultra-cinefilo, rigorosissimo, tutto di testa; dove lo stile è innegabile ma è uno stile composto e compunto, che desatura tanto i colori quanto le emozioni e la spettacolarità, nel quale le passioni e il desiderio che muovono i personaggi, sono vissute ed elaborate tutte interiormente. Uno stile perfettamente incarnato dall'impeccabile Ginko di Mastandrea, ma che si riflette in tutti gli altri personaggi.
I riferimenti sono ovviamente quelli del cinema di genere di casa nostra di quel periodo (non manca, in alcune scene, un pizzico di gotico che non fa mai male), ma anche quelli di un Alfred Hitchcock che appare come un faro assoluto.

La più hitchcockiana di tutti, e non poteva essere altrimenti, in questo Diabolik dei Manetti è Eva Kant.
Una Eva che è centro e motore di tutta la trama, che è una splendida donna che visse due volte, elegante come un'ereditiera americana in Costa Azzurra, un pezzo di ghiaccio bollente che conquista un austero e algido Diabolik al primo sguardo, e che col binocolo non guarda da una finestra sul cortile ma su una baia, la baia di Ghenf, e capisce che è arrivato il momento di entrare (di nuovo) in azione e aiutare il suo uomo, mica di star ferma a fare "la mogliettina".
Eva, centro e motore, anello (letteralmente) di congiunzione tra mondi, storie e personaggi; colei che fa vibrare il film e pure il Diabolik di Luca Marinelli, che pure vibra già da solo pure quando è costretto, ovvero quasi sempre, a essere maschera impassibile: perché quegli occhi e quel volto son vibratili e nervosi di natura, e non ci puoi fare niente, anzi, puoi sceglierlo proprio per quello.

Preparatevi a essere sorpresi, e spiazzati, da questo Diabolik, perché probabilmente è l'opposto di quel che tutti si aspettavano.
Un film volutamente anacronistico, sbucato dal passato, che il passato - del cinema e del fumetto - lo mette in scena senza alcun ammiccamento vintage o postmoderno, ma semplicemente proponendolo a uno spettatore cui viene chiesto di aderire entrando nel film da solo, senza dargli facili appigli o ganci ironici, o peggio trascinarlo per la collottola come spesso avviene. Una cosa, oggi, quasi scandalosa.
E se ai Manetti gliela si tende, la mano, invece che aspettarla, entrare nel mondo e nei tempi di Diabolik può regalare delle soddisfazioni, anche grazie alla precisione scandita che i Manetti mettono nelle scene in cui la tensione - dilatata - si fa sentire, e a una capacità di racconto che tutto sommato fa scorrere lisci i 133 minuti del film. Minuti che, come quasi sempre di questi tempi, sono troppi: ma questa è un'altra storia.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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