Coco: la recensione dell'ultima luminosa fatica Pixar

15 dicembre 2017
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In un mare di sequel, emergono una storia potente e un film trascinante.

Coco: la recensione dell'ultima luminosa fatica Pixar

A 12 anni Miguel ha la musica nel sangue, ma nella sua famiglia ogni nota è bandita, da quando l'anziana bisnonna Coco fu lasciata dal proprio babbo per seguire carriera e successo. Deciso a partecipare a un concorso musicale nel Día de los muertos, privato della sua chitarra, Miguel la ruba dalla cappella proprio del suo trisavolo negato, il cantante Ernesto de la Cruz, gloria nazionale. A sorpresa, l'azione lo proietterà nel regno dei morti...

Resistendo sotto le intemperie di una produzione piena di sequel, il regista Lee Unkrich ha sostenuto il suo Coco sin dall'idea nata nel 2011, all'indomani del suo Toy Story 3. La riuscita del lungometraggio sarebbe evidente per i pregi che andremo ad analizzare, ma acquista un valore doppio se si tiene a mente ciò che è accaduto in questi sei anni: la malaugurata registrazione del primo titolo "Día de los muertos" con conseguente sollevazione delle comunità latine contro la Disney; le accuse preventive di plagio del Libro della vita (2014) di Jorge Gutiérrez (sostenitore però di Coco); la distribuzione in sala (poi cancellata negli States) in compagnia di una lunga featurette di Frozen, sospetta strategia di sostegno di un progetto originale e rischioso pixariano con il marketing Disney doc. Il rischio più grande era derubricare Coco a progetto secondario dal destino impervio, come è accaduto al travagliato Il viaggio di Arlo.

Immaginate che tutto ciò che abbiamo appena scritto abbia un peso. Immaginate adesso quel peso che si solleva molto rapidamente, nel giro di una decina di minuti dall'inizio del film. Come nella migliore tradizione pixariana, quella per intenderci di Inside Out e Up, Coco ci scaglia in un racconto emotivamente trascinante, alimentandosi allo stesso tempo di temi complessi, che entrano ed escono dalla sceneggiatura con la massima naturalezza (ricorda Il Libro della Vita solo in superficie, la profondità emozionale è imparagonabile).
Ossessione anche di Damien Chazelle in Whiplash e La La Land, il bivio tra perseguimento della vocazione personale e affetti si sviluppa con maggiore ottimismo ma non minore conflitto: il tradimento di chi ci vuol bene non è in Coco meno grave del tradimento di se stessi. Il percorso di Miguel può ricordare quello di Riley in Inside Out: non viene mai messo in dubbio un ordine superiore che concilia la delusione con la gioia, ma è una magica serendipity che si attiva solo al faticoso raggiungimento della nostra maturità, non importa quanto il tragitto sia traumatico. L'importanza rivestita dai defunti nella storia farebbe pensare a un'elaborazione del lutto simile a quella di Up, però Unkrich e i suoi hanno posto ben due generazioni tra Miguel e gli scatenati scheletri che incontra nel coloratissimo aldilà, suggerendo di volersi spingere oltre. Non si chiede di accettare l'idea della morte, quanto di abbattere quel labile confine tra esistenza e assoluto che è dentro ciascun essere umano, con l'aiuto del ricordo, della memoria e di un legame (attento, convinto) con la tradizione, privata e collettiva. Non a caso la musica, uno degli arieti più spontanei per tali barriere, non ha mai avuto un'importanza tale in un film Pixar, con colonna sonora di Michael Giacchino e canzoni originali, tra cui una molto funzionale alla vicenda.

Grazie alla collaborazione del giovane story artist Adrian Molina, coregista e cosceneggiatore di origini messicane, Unkrich riesce a rendere la cornice ulteriore sostanza del discorso: il folklore del Día de los Muertos e della cultura messicana sblocca eventuali resistenze culturali cattoliche di stampo europeo, più pudiche e contenute, trattando una materia delicata in una chiave trasversale che è fantasia, colore, simbolo, vitalità, risate e tenerezza. Concepito molto prima che Donald Trump si candidasse, Coco costruisce un ponte di comunanza tra culture attraverso il mistero del tempo che passa, vero devastante trait d'union di tante storie Pixar.
A un occhio attento, Coco si distingue ugualmente per la sua realizzazione tecnica, per la sua capacità sottile, magistrale, di conciliare la vitalità cartoon e caricaturale dell'ambiente e dei personaggi con uno stile di ripresa e montaggio che guarda al cinema dal vero: una camera mobile e inquieta che insegue i personaggi e respira, e una direzione della fotografia realistica in grado di coinvolgere a livello quasi subliminale. Nella sostanza e nella forma, nel cuore e nella maniacale attenzione al dettaglio, Coco sa perciò ancora stupire nel 2017, quando dalla rivoluzione di Toy Story sono trascorsi 22 anni. Meno male, la Pixar ha battuto un colpo.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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