Cetto c'è, senzadubbiamente: la recensione della commedia con Antonio Albanese
Alla sua terza avventura sul grande schermo Mr. La Qualunque si è fatto più buono e più buffo, mentre il mondo intorno a lui è peggiorato e vorrebbe uccidere la democrazia.
Cetto La Qualunque è un prodotto della nostra nefasta epoca e contemporaneamente una maschera che viaggia nel tempo e nello spazio, che va “dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”, come scriveva il buon Alessandro Manzoni parlando di quel Napoleone Bonaparte di cui il nostro indossa a un certo punto il cappello e la grandeur. Cetto si porta dietro e assorbe canaglie del passato remoto e anche del passato recente, si nutre dei ricordi d'infanzia di Antonio Albanese e percorre l'Europa e l'Italia, soprattutto il Meridione. Con la sua filosofia fatta di individualismo, corruzione e sempiterna devozione alle "minne", Cetto ha osservato l'evoluzione e l'involuzione della repubblica, forma di governo "con cui le abbiamo provate tutte: destra, sinistra, sopra, sotto, obliquo, con la democrazia a gambe leggermente accavallate, prona, supina e ovina". Cetto c'è sempre stato e ancora c'è e ci sarà, senzadubbiamente. E’ un Cetto diverso, però, molto diverso dall’aspirante sindaco di Marina di Sopra di Qualunquemente, che era graffiante, malevolo, beffardo e ingombrante.
Più grande di 9 anni, Cetto non è più un losco figuro, non fa più parte di un'umanità pittoresca e nello stesso tempo agghiacciante. Certo, ha i capelli del colore di Donald Trump e non dichiara al fisco tutto ciò che guadagna, ma più che cattivo è straordinariamente buffo, e non a caso il nome con cui aspira a diventare sovrano del Regno delle Due Calabrie è Cetto Primo Buffo. La nuda verità è che Cetto, con le sue pizzerie e i suoi capricci da Re Sole, quasi quasi è diventato un moderato, una pedina nelle mani di un gruppo di potenti che brigano e tramano, ma di questo potrà accorgersi solo uno spettatore attento, che riconosce la capacità di Albanese di cogliere l'essenza di ciò che gli accade intorno e che riderà a denti stretti alla battuta: "Gli italiani si bevono qualsiasi minchiata". Quello spettatore, ascoltando l'irresistibile brano rap "Io sono il Re", riflettendo sulle parole "Il popolo è con me contro le élite" penserà, fra le altre cose, all'inutile polemica scoppiata all'indomani della vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo. Il resto del pubblico, invece, probabilmente si divertirà e basta, perché di occasioni di divertimento il film di Giulio Manfredonia è pieno: ci sono le lezioni di galateo, la caccia alla volpe, un matrimonio di convenienza e tanta paccottiglia: innanzitutto nel castello principesco e nella mise da sovrano di Cetto, che non trama nell'ombra come la strega di una novella grottesca, ma fa e disfa e si lascia riverire come in una favola classica, in cui chi ha lo scettro è un bambino egoista e prepotente e gioca con il lusso e i privilegi.
Manfredonia segue e asseconda il ritmo di Cetto e, fin dai titoli di testa, si tuffa in una fiaba alla Disney, in cui del kitsch del primo film c'è giusto un assaggio, mentre grande rilevanza ha la storia di re e regine dei secoli passati. Prigioniero di un mondo colorato e fantasioso, Mr. La Qualunque trova comunque il modo di dare la sua zampata, di condividere con i suoi futuri sudditi un programma politico all'insegna della scorrettezza e della ricchezza nelle mani di pochi. E tuttavia le montagne di pilu di cui si circonda gli attirano più simpatie che antipatie. Ne deriva che in Cetto c’è, senzadubbiamente la parte del villain passa all'aristocratico Venanzio di Gianfelice Imparato. E infattamente, se Antonio Albanese e Piero Guerrera hanno voluto che Cetto diventasse re, dopo averlo immaginato prete, golpista e addirittura impotente, è perché da qualche parte, in Italia, qualcuno ha davvero nostalgia della monarchia, qualcuno davvero si riunisce in circoli della caccia in cui solo chi ha "le palle sulla corona" può essere ammesso. E’ un mondo perduto nel senso spielberghiano del termine e molto minaccioso l’aristocrazia nerissima che Albanese e Manfredonia raffigurano, cercando di allontanarlo dalla cronaca, quasi fosse materia di un'operetta. A guardarlo bene, è invece assai più vicino di quanto si pensi, ma è solo deformandolo e ridendone che regista e protagonista possono essere più surreali della realtà, e quindi incisivi.
Premesso che per Albanese il cinema è uno strumento comico e non satirico, perché la satira chiama il giudizio e il moralismo, prima di congedarsi da noi Cetto trova anche il tempo di dare una stilettata a chi ha fatto della "ruspantezza" un vanto. "Di cultura si può anche crepare, meglio l'ignoranza pe’ tirà a campare" - declama il principe calabro senza destriero bianco. Per questo lo adoriamo: per la sua leggerezza intelligente, per la sua disarmante sincerità, per il suo valore archetipico e per la sua maniera flessuosa di muoversi e di danzare. A fine visione di Cetto c'è, senzadubbiamente, un piccolo desiderio non esaudito però resta: quello di vedere al fianco di Cetto La Qualunque una spalla comica capace di porgergli mirabilmente le battute. Nessuno, in questi anni, ha saputo esserlo come Fabio Fazio a Che tempo che fa. Nessuno come lui è riuscito a innescare il guru del peperoncino, che avrebbe bisogno, in un eventuale ulteriore ritorno sul grande schermo, di una nemesi infallibile. Allora sì che affronterebbe di slancio tutti i 90, 100 o 110 minuti di un film.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali